HALF DOME

MOUNTAIN PROFIL / part I°

 

Il primo alito di vita della Yosemite Valley è attribuito fin dall’antichità ai nativi indiani d’America, proprio quelli che hanno occupato i sogni di bambini d’intere generazioni. E da quando si è iniziato a dare i nomi alle tribù, in una data ancora oggi imprecisata, Ahwahneechees è stato accreditato come il nome del popolo “originale”.
Il perché questa tribù si sia insediata e arroccata in questi luoghi (almeno fino all’arrivo dell’uomo bianco) è che la valle, con le sue alture e i suoi ripidi profili, si prestava perfettamente alla difesa di attacchi nemici: una peculiarità che li ha salvati più a lungo di altri popoli vicini dalle incursioni coloniali – prima spagnole, poi messicane e infine inglesi. Questa tribù, quindi, per secoli prosperò indisturbata nella “valle erbosa e profonda del grande orso grigio” (così la chiamavano gli indiani, almeno come interpretarono la traduzione i primi coloni).
L’avanzata dei miliziani americani nel 1851 ebbe come epilogo quello di cacciare i nativi dalla valle, facendoli spostare sulle montagne più alte, e lasciando ai primi esploratori un Eden incontaminato e fantastico. Gli Ahwahneechees, con la morte dell’ultimo capo anziano della tribù, piano piano scomparvero. A dire il vero rimasero nella vallata per ancora tre decenni, ma l’identità della tribù era ormai perduta, e la graduale integrazione coi bianchi ne sancì la fine al calar del secolo.

 

Tipico accampamento indiano degli Ahwahneechees nella piana del Mercedes River

 

A beneficiare per primo dello splendore di Yosemite fu John Muir. Esploratore leggendario, autore di libri che ancora oggi sono oggetto di culto negli States, nel 1868 visitò Yosemite, che fino ad allora era conosciuta dal mondo come un semplice nome sulla mappa, peraltro approssimativa. Il suo primo scritto definì candidamente la vallata con queste parole: “Nessun tempio fatto dalle mani umane può competere con Yosemite”. E per merito delle sue pubblicazioni iniziarono le prime incursioni di audaci e curiosi da ogni dove per conquistarne le cime. Ancora oggi non è chiaro se sia riconducibile all’uomo bianco aver salito per primo le vette della valle, ma questo è lo specchio esatto di quello che è accaduto anche nelle Alpi, dove cacciatori locali passavano talmente vicino alle cime che posarvi i piedi secoli prima sarebbe stato dannatamente semplice.

 

John Muir, ormai vecchio, uno dei primi esploratori di inizio Novecento in Yosemite

 

Dopo millenari tempi geologici dalla sua formazione, ancora oggi la prima figura che balza all’occhio anche ai più distratti visitatori è una montagna dall’immane parete levigata che sembra tagliata dalla scure di un titano: l’Half Dome. Non è un caso che questa montagna sia stata la prima a essere oggetto di mira dei pionieri bianchi più intrepidi. Fin dal 1860 l’Half Dome è stato assediato da tentativi di salita per il suo versante più debole. Il più accanito fu Josiah Whitney che con rassegnazione – dopo l’ennesimo fallimento – concluse: «Nessuno lo ha mai scalato e nessuno metterà mai piede sulla sua cima».
Di solito, nella storia, le conquiste delle cime più difficili avvengono dopo un miglioramento dei materiali, nonché di un cambiamento dell’ottica e delle capacità di salita, ma mai prima di allora ci fu un assedio così testardo e dai connotati così innaturali come avvenne nel 1875 all’Half Dome. Questa è, infatti, la data della prima ascensione ufficiale, quando George Anderson scalò la montagna con l’erculeo sforzo di forare la roccia a ogni passo e di ficcarci un bastoncino in ognuno di essi per innalzarsi. Il tratto più ripido consiste in una placca appoggiata a 45 gradi: ovvio è, col senno del poi, che su una placca del genere sia oggi possibile salire con delle normali scarpe da tennis, ma a quel tempo esistevano solo scarpe rigide o scivolosissimi stivali.

 

 

 

I.   AL TEMPO DELLA PRIMA BIG WALL

Bisogna aspettare fino al 1946 prima che la montagna più fotografata del mondo sia di nuovo nella mente degli audaci. Questa volta, il nome del suo pioniere è John Salathé; la parete: la Sud-Ovest. Benché questo versante non sia il più appariscente dei tre che compongono l’enorme mole dell’Half Dome, per quei tempi era anche l’unico con possibilità di salita, mentre la Nord-Ovest apparteneva ancora al mondo dell’aria.

 

Ax Nelson e John Salathé sulla vetta della Lost Arrow (ph: Yosemite Climbing Association Collection)

 

Salathé, uno svizzero trapiantato negli States, sfoderò le sue abilità e la sua inventiva per forgiare dei chiodi particolari che si distinguevano dagli altri per essere allo stesso tempo resistenti e sottili, e che ben si prestavano alla linea naturale individuata sulla parete: una fessura sinuosa e spesso svasata che non avrebbe accolto chiodi di altro genere. Assieme ad Ax Nelson, nell’ottobre del 1946, si portò alla base della parete con tutta la “ferraglia” necessaria e, come spesso succede nell’alpinismo, la cordata si trovò inseguita da un gruppetto di scalatori (appartenenti al Sierra Club) con il loro stesso obiettivo. Tuttavia il mattino successivo Salathé e Nelson attaccarono per primi e iniziarono a salire la parete, nella cui evidente fessura i chiodi compirono la magia! Ai ragazzi non restò altro che osservarli coi nasi all’insù, con la consapevolezza che mai li avrebbero raggiunti né tantomeno superati. Inoltre, i baldi giovincelli della Sierra erano in sei, cosa che avrebbe complicato non poco la progressione; senza contare che di chiodi adatti all’impresa non ne avevano neanche l’ombra, perché il loro inventore era sopra di loro a salire l’inviolata parete!
I due però non riuscirono a salirla in un solo giorno. Certo il capocordata possedeva un’“arma” evoluta, però questi chiodi bisognava comunque martellarli, e farlo su una parete di centinaia di metri richiedeva il suo tempo. Così bivaccarono su un terrazzino sfuggente in piena placconata, terminando il mattino seguente. La via si concluse col numero di 150 chiodi infissi, realizzando un record per Yosemite, che la portò a essere considerata la via più difficile d’America.

 

La parete sud-ovest dell’Half Dome, sulla quale Nelson e Salathé aprirono la loro via nel 1946

 

Ma questo primato durò poco tempo, perché l’anno successivo proprio Salathé (ancora con Nelson) affrontò la Lost Arrow, una “punta di lancia” conficcata in centro alla parete dell’Arrow Spire, oggetto di venerazione fin dai tempi degli indiani, e poi ambita con occhi nuovi dagli arrampicatori americani del Novecento. Questa salita, anche se su una parete ben distante dall’Half Dome, è importantissima dal punto di vista storico, perché fu ufficialmente la prima big wall mai salita al mondo. Questo termine – è bene precisarlo – non indica la grandezza di una parete, come suggerisce invece la sua traduzione letterale, anche perché nelle Alpi erano già state scalate pareti ben più alte, ma piuttosto si riferisce al metodo di progressione e alla sua tecnica. Fino ad allora, infatti, gli scalatori americani cercarono di salire le pareti con leggerezza e velocità, e chiaramente questa caratteristica li faceva stare ben lontani dall’affrontare di petto le sezioni più difficili, destreggiandosi invece lungo le pareti con rocambolesche opere di aggiramento o semplicemente seguendo linee logiche e più facili, che talvolta racchiudevano problemi machiavellici risolvibili solo grazie a intuizioni strepitose.
Proprio in quest’ottica di scorciatoie ed escamotage, infatti, è un esempio la prima e discussa ascensione della Lost Arrow, compiuta nel 1946, che fu effettuata grazie a lanci di corda a tentacoli per agganciare spuntoni o lame sulla sua cima, per poi issarsi fino al vertice. Una vicenda che anche il nostro alpinismo ben conosce, perché verrà eroicamente riproposta anni dopo dallo stesso Walter Bonatti sul Petit Dru, nell’atto di trovare una via d’uscita da una situazione disperata che lo avrebbe inevitabilmente intrappolato per sempre sulla montagna.
Tornando alla rocambolesca conquista della Lost Arrow, invece, questa ascensione fu subito foriera di malumori e condanne, tanto che lo stesso Nelson diede segni di pentimento e accettò l’invito di Salathé a ritornare con lui per vincere la parete “dal basso” e chiuderne definitivamente i conti nel 1947 con una scalata più pura. E così fu.

John Salathé sulla cuspide della Lost Arrow nel 1947. Più sotto Ax Nelson all’ultima sosta. Lo scatto più emblematico della prima big wall salita al mondo

Ed è proprio con questa salita del 1947, con Salathé, che è nata l’essenza del termine big wall: una parete che richiedeva più giorni per essere salita, e verticale a tal punto da esigere una progressione artificiale e lenta, proprio al contrario dello spirito che finora aveva animato i cuori degli appassionati. Questa “punta di lancia” insegnò molte cose: prima di tutto l’utilizzo del chiodo a espansione (che Salathé utilizzò per vincere la cuspide), poi la necessità di trainare con sé un sacco pieno di materiale, cibo e acqua, e infine che i chiodi di Salathé ebbero il battesimo naturale in chiodi lost arrow, entrando nell’attrezzatura di base di ogni arrampicatore del mondo.
Molto altro ancora si potrebbe raccontare di questa salita che segnò l’inizio di un’epoca, tra cui la curiosa scelta del capocordata di riempire gli zaini con soli 6 litri d’acqua in due per 5 giorni e con cibo per soli vegetariani (cosa che Nelson – da convinto carnivoro – proprio non riuscì ad accettare, raggiungendo la cima completamente debilitato e con la voglia di assassinare il compagno!), ma chiudo la parentesi con lo strano epilogo del suo pioniere John Salathé. Questo straordinario scalatore che fece la storia dell’arrampicata, dopo pochi anni dalle sue ultime imprese tornò in Svizzera abbandonato dalla famiglia in seguito a evidenti segni di pazzia (pericolosi soprattutto per la moglie, ormai divenuta un bersaglio delle manie omicide del marito). Visse fino al 1993 in Ticino, in una casa in pietra a una sola stanza e senza finestre, frequentando una bizzarra setta di cristiani che credevano nella reincarnazione.

 

 

II.   LA GOLDEN AGE

 

Ogni cambio di guardia porta con sé i venti dell’innovazione. Da un’era pionieristica e dai connotati epici (in cui John Salathé era considerato il re indiscusso della valle) si stava entrando in un periodo di transizione. Un’epoca di passaggio rappresentata da due opposte filosofie e stili di vita, incarnati perfettamente da due capifila che avrebbero diviso le menti, i cuori e i modi di agire nella Yosemite Valley per i successivi vent’anni. I due erano Royal Robbins e Warren Harding.

 

 

Il primo, che già dal suo nome regale ostentava forza e fierezza, era considerato l’astro nascente della valle, presentandosi in Yosemite con lo sbalorditivo biglietto da visita della salita solitaria e in libera (a 17 anni) della via “Open Book” alla Tahquitz Rock, fino a quel momento considerata la via in artificiale più dura degli USA. Non aveva ancora vent’anni, ma Robbins si accorse che il metodo di classificazione delle difficoltà americane era obsoleto e inefficace, e a ventuno creò una nuova scala – usando la classe 5 – che comprendeva varie sottoclassi: dal 5.5 che indicava una difficoltà media, si poteva arrivare al 5.10 intensificando la difficoltà fino all’estremo. La sua intuizione si diffuse ben presto in tutti gli States e raggiunse Yosemite ancor prima dell’arrivo di Robbins stesso. Già con le sue prime scalate nella valle, era chiaro che sarebbe diventato lui il leader della prossima rivoluzione di Yosemite. Robbins l’intellettuale, colui che leggeva i classici della letteratura, serio e riflessivo e che dosava le parole col contagocce. Era sicuramente competitivo, ma con una grinta rispettosa e molto introspettiva che gli fu preziosa per alzare la posta ogni volta. Un mix di caratteristiche che provocò alcune divertenti critiche che lo accusavano di prendersi troppo sul serio e che lo paragonavano a un pretino di campagna.

 

Warren Harding, in uno dei suoi scatti più rappresentativi (stile ironico e irriverente).

Ovviamente, come competitor non poteva che esserci la sua esatta antitesi: Warren Harding. Alcolizzato, strafottente, provocatorio, irriverente e in cerca di gloria, Harding beveva come se non ci fosse un domani, ma sapeva sfogare (e smaltire) il tutto sulle pareti, assieme a una massiccia dose di adrenalina. Omonimo di un presidente del secolo precedente (per l’esattezza il 29° Presidente degli Stati Uniti), viveva ancora con la madre a trent’anni, aveva un irresistibile debole per le donne e per le auto sportive appariscenti, con le quali si presentava a Camp 4 stridendo col tipico mondo in bancarotta dei climber di quei tempi, col quale peraltro (auto a parte) si integrava benissimo! A differenza del suo rivale, Harding era sboccato e totalmente anticonformista, uno che giudicava i libri di Kerouac (che a quel tempo furono eletti a simboli per l’emancipazione giovanile verso la libertà estrema) come testi scritti per imbecilli! Sulle pareti, però, sapeva far uscire tutta la forza e l’esperienza in suo possesso. E anche se le affrontava con l’indole da muratore (come venne etichettato il suo operato “troppo artificioso” di quegli anni), si spingeva sulle pareti in ogni stagione, col caldo e col freddo, col sole e con la tempesta, e non mollava mai. Harding era sicuramente il più indomabile e tenace arrampicatore americano del suo tempo.
Robbins e Harding, modalità e spirito a parte, si avviarono insieme per fare la storia di Yosemite. Fu uno scontro tra titani, senza esclusione di colpi, anzi… senza esclusione di big wall!

 

Harding in arrampicata su El Capitan

 

Per la Nord-Ovest era arrivato il tempo delle prime visite. Le nuove attrezzature, forgiate dalle esperti mani di John Salathé, sarebbero ben presto state affinate dalle giovani leve di Yosemite.
Nel 1955, in uno dei primi tentativi seri alla parete, si verificò un’incredibile situazione destinata a non ripetersi più: Robbins e Harding nella stessa cordata! Ma fu solo una parentesi, che però permise ai due di capire chiaramente che non era scoccata la scintilla.
Vista dalla base, la parete si mostra incredibilmente verticale e compatta, e l’unico punto a suo tempo etichettato come “possibile” fu una serie di fessure e diedri all’estremità sinistra della parete. Dopo due anni, Robbins tornò con una nuova cordata (ovviamente senza Harding) e iniziò la scalata. Il compagno di Robbins, Gallwas, creò dei chiodi angolari di acciaio duro, memore delle fessure che dovettero affrontare nel tentativo del 1955. Inoltre, il loro comune amico Chuck Wilts inventò dei nuovi chiodi a lama sottile, ancora più fini di quelli forgiati da Salathé: i knife blade. Sembra incredibile oggi pensare che degli oggetti così comuni nel nostro tempo, poterono allora fare la differenza tra vittoria e sconfitta.
Era dunque tempo di novità, sia nella tecnica sia per certe questioni “collaterali”. Dopo la Lost Arrow di Salathé, di big wall non ne erano ancora state scalate, e quindi a risolvere il problema “igienico” principale nessuno aveva ancora pensato. L’intuizione venne a Robbins, avendo avuto tra le mani un oggetto che poteva fare al caso suo poco tempo prima, tra le file dell’esercito americano. A quel tempo i marines fornivano a ogni divisione un adeguato contenitore dalla forma ovale, per espletare i propri “bisogni” in assenza di toilette. Quindi, perché non portarlo sulle pareti? E così fu: lo Shmoo fece la sua comparsa ufficiale nel 1957 sull’Half Dome, risolvendo il problema “idraulico” principale su quella che è ironicamente la montagna più fotografata del mondo! La scalata durò cinque giorni, il che fa pensare che l’intuizione di evitare di sporgersi a mutande abbassate era corretta…

 

La grande parete dell’Half Dome

 

Sulla parete gli scalatori dovettero piantare qualche chiodo a espansione, ma erano così pochi per una muraglia di quelle dimensioni che a nessuno venne in mente di criticare l’operato della cordata. Robbins diede prova di essere davvero un maestro, inventandosi un pendolo per acchiappare un provvidenziale sistema di fessure che gli evitò di continuare a usare il perforatore.
Ci si potrebbe dilungare ancora sulle “novità” che la salita del 1957 ha portato, come ad esempio che il dover restare in parete per giorni e in luoghi irraggiungibili da altri, necessitò di escogitare segnali visivi per comunicare lo stato di salute agli amici a valle; ma l’epilogo più importante è che le difficoltà incontrate erano così alte che fu dichiarata la prima via di VI grado degli Usa.
I tre arrampicatori, dopo cinque giorni passati in parete, uscirono in vetta per vedere come primo volto proprio quello di Warren Harding. Forse ancora col dente avvelenato per l’esclusione, ebbe però il buon gusto di congratularsi con loro, e a denti stretti strinse focosamente le loro mani pronunciando – nel suo stile unico e inimitabile – le parole: «Siete dei bastardi fortunati!».

 

Harding ritratto come un diavoletto su una quercia a Camp 4

 

Secondo pareri autorevoli, dentro di sé in quel momento il povero Warren stava bruciando d’invidia e, senza perdere altro tempo, il giorno dopo iniziò a dedicarsi all’unica parete ancora più difficile e ancora più alta: El Capitan. Che vinse l’anno successivo compiendo indicibili sforzi su quella via che oggi è chiamata “Nose”.
La “Regular Route” all’Half Dome dimostrò definitivamente che anche una parete così grande, difficile e verticale poteva essere superata. Fu una rivelazione: da quel momento giovani climber americani assaltarono le pareti come pirati all’arrembaggio di una nave, con le conseguenti vittorie o umiliazioni del caso.[/fusion_text]