Di Federico Magni

Dal Circo Concordia il Gasherbrum IV appare incastonato fra il Broad Peak, gli altri due Gasherbrum (I e II) più celebri perché superano la soglia degli Ottomila metri, mentre sullo sfondo si erge imponente la sagoma minacciosa del K2, eppure la sua storia alpinistica è breve. Niente a che vedere con le innumerevoli vicende che hanno costruito l’epopea degli altri giganti che lo circondano. Nonostante ciò chiunque si avvicini alla sua parete ovest ne è inevitabilmente attratto. Le caratteristiche che la rendono una montagna più difficile e più pericolosa del vicino K2 hanno però ricacciato indietro anche i sogni dei più forti alpinisti. “Cos’era il GIV? Era la provocazione pura! Tentarne la scalata era in quel periodo la maggior sfida che si potesse lanciare all’intero ambiente dell’alpinismo mondiale”, disse Bonatti intervistato da Mario Casella sulla spedizione italiana del 1958. Il GIV fu una rivincita per Walter Bonatti dopo la tormentata vicenda del K2, anche se per lui a motivare la cordata fu principalmente il Tricolore da portare lassù. Erano in molti intorno alla metà degli anni ‘50 a credere che il GIV fosse una montagna invincibile e dopo l’impresa degli italiani furono necessari quasi vent’anni perché altri alpinisti salissero nuovamente sulla sua vetta principale. Anche perché l’intera area venne chiusa agli stranieri dal 1963 al 1974. Ancora oggi la cima di 7.925 metri è stata raggiunta solamente quattro volte.

Il 6 agosto del 1958 Bonatti e Mauri conquistarono l’impossibile. “Alle 12.30 esatte posiamo il piede sul GIV. E’ un’esile cresta su cui stiamo eretti a malapena tra raffiche di vento che sembrano volerci strappare di dosso i vestiti – scrive Bonatti di quel momento -. Lì dove siamo, sfugge sotto i piedi la grande “parete lucente””. La spedizione italiana al GIV fu il momento della rivalsa anche per Riccardo Cassin che guidava la comitiva dopo essere stato clamorosamente escluso dalla spedizione al K2 e ne facevano parte Walter Bonatti, Bepi de Francesch, Toni Gobbi, Fosco Maraini, Carlo Mauri, Giuseppe Oberto e il medico Donato Zeni. Grazie a circa cinquecento portatori vennero trasportate oltre sette tonnellate di materiale al campo base a 5200 metri dove il ghiacciaio Gasherbrum Meridionale confluisce nel ghiacciaio Duca degli Abruzzi. Gli italiani lavorarono sodo per cercare di superare la grande cascata di ghiaccio (che prese il nome di “Seraccata degli italiani”), che avrebbe permesso di raggiungere il lato nord, a oltre settemila metri, e quindi la cresta nord-est che gli alpinisti pronti al balzo finale avrebbero seguito per raggiungere la cima quasi mille metri più in alto. E’ il 9 luglio quando sulla cresta viene piazzato il campo V a 7.200 metri. Il giorno dopo Bonatti e Mauri proseguono per altri duecento metri. Nei giorni successivi continueranno ad attrezzare la via fra alte difficoltà di arrampicata su roccia. “Difficoltà sempre forti; almeno tre tratti più duri del famoso camino Bill del K2. Il tutto però a quote superiori ai 7350 metri”, scrive Toni Gobbi in una lettera. Il 14 luglio sembra il momento decisivo. Partono di notte dal campo V. Superano le principali difficoltà della via e alle 11.15 sono a meno di duecento metri dalla cima. L’obiettivo è vicino ma decidono di rientrare. Segue un lungo periodo di cattivo tempo che li costringe all’attesa al campo base. Solo verso la fine di luglio si può tornare a salire. Il 4 agosto sempre Bonatti e Mauri sono a un centinaio di metri dalla cresta sommitale ma sono costretti a rientrare ancora una volta. Si fermano a campo IV, un rifugio attrezzato a 7.550 metri di quota dove sono bloccati anche il giorno successivo a causa delle condizioni del tempo. Il 6 agosto finalmente è il momento della zampata decisiva. Dopo cinque ore raggiungono l’anticima, ma non è ancora finita. Impiegano altre due ore per percorrere la cresta di roccia e ghiaccio sospesi su pericolose cornici. Devono superare altre cinque torri prima di raggiungere il punto più alto. «Ci abbracciamo, appoggiandoci l’un l’altro, e siamo scossi da singhiozzi di commozione. Mi stacco da Walter e mi siedo su questo spazio appena sufficiente per starci in due. Seduto, mi sento invadere da un appagamento totale. Godo di una felicità assoluta e mi libero dalla stanchezza», annoterà Carlo Mauri sul suo diario. Dopo aver lottato anche con la macchina fotografica e addirittura cambiato il rullino per poter fermare il momento della conquista con la bandiera italiana e quella pakistana che sventolano sulla vetta appena conquistata, decidono di rientrare immediatamente. «E’ tempo di scappare per sopravvivere – racconta Bonatti di quei momenti -. Comincia a nevicare, e presto i turbini e le raffiche ci sferzano e ci accecano. La tormenta tocca il suo culmine quando raggiungiamo alle 18.10 il sesto campo. Tanta furia pare quasi una vendetta della montagna appena vinta». Entrati nella piccola tenda aggrappata alle rocce sono ormai disidratati e sono colti da brividi inarrestabili. Sale l’angoscia per quello che li aspetta il giorno successivo. «Da qui domani dovremo calarci in mezzo a un inferno di elementi scatenati». La mattina le rocce sono sparite, sepolte dalla neve. L’aria è irrespirabile, quasi solida per la polvere gelata. A mezzogiorno raggiungono il quinto campo dove trovano De Francesch e Zeni saliti il giorno prima. Nemmeno il tempo di abbracciarsi che De Francesch viene spazzato via dalle raffiche e finisce duecento metri più sotto, illeso per miracolo. Scendono verso il campo quattro dove trovano altri compagni. Tre giorni dopo aver raggiunto la vetta, sempre flagellati dalle tempeste, raggiungono finalmente il campo base. Una vittoria italiana quattro anni dopo quella sul K2, che solo una cordata come quella Bonatti-Mauri poteva immaginare e realizzare. Dopo 57 quella via spetta ancora una ripetizione. «Walter e Carlo! Dall’unione di due personalità così profondamente diverse si è costituita una cordata davvero irresistibile – scriveva Fosco Maraini, al seguito della spedizione -. L’uno è la forza ragionata e cauta, l’ardire misurato e preciso, quasi felino; l’altro è l’urto, l’ardore, l’esplosione appena imbrigliata. Un uomo completa e integra l’altro».

Carlo Mauri in cima al Gasherbrum IV

A cavallo tra gli anni settanta e ottanta, gli occhi degli alpinisti in zona si concentrarono sull’imponente parete ovest. Inglesi, americani e giapponesi fallirono. Dopo anni di oblio l’interesse per la “Montagna scintillante” si riaccese soprattutto intorno alla metà degli anni Ottanta. Prima con la spedizione dell’austriaco Robert Schauer e del polacco Wojciech Kurtyka che nel 1985 compirono il loro epico “tentativo“ sulla parete Ovest. Riuscirono a superare i tremila metri della grande muraglia verticale in stile alpino ma dovettero rinunciare sulla cima Nord (alta circa 7.910 metri) a causa del cattivo tempo.

L’anno successivo invece sul ghiacciaio del Baltoro arrivò una spedizione di otto uomini, australiani e americani accompagnata da un’ottantina di portatori. Dopo aver attraversato la lunga lingua di ghiaccio che porta all’immenso anfiteatro del Circo Concordia installarono il campo base. Furono costretti ad aspettare tre settimane a causa del maltempo prima di riuscire a salire da Nord-Ovest. Riuscirono ad individuare la via lungo la cresta e infine a installare campo 3 in una piccola caverna di ghiaccio. Dopo quasi un mese di spedizione decisero di sferrare l’assalto finale leggeri e veloci senza tende, sacchi a pelo né cibo, ma furono colti dal buio quando non avevano ancora raggiunto la vetta. Sarebbero dovuti scendere e rinunciare oppure avrebbero dovuto affrontare una notte da incubo a settemila metri. Gli australiani Greg Child e Tim Macartney-Snape e l’americano Tom Hargi, scelsero quest’ultima opzione. Scavarono una buca nella neve e trascorsero la notte a 7.860 metri. Il giorno successivo, il 22 giugno, la loro scelta fu premiata. Il sole accompagnò l’ultimo tratto di scalata fino alla vetta e per la seconda volta dopo Walter Bonatti e Carlo Mauri, ventotto anni più tardi, qualcuno calcava la vetta del Gasherbrum IV. Quella grande avventura diventò anche un film “Harder than Everest”. Ci furono altri tentativi di cordate inglesi, giapponesi e americane, ma tutti furono costretti a tornare indietro respinti da una montagna quasi impossibile da domare.

Più tardi, nel 2002, una spedizione svizzero-italiana guidata da Mario Casella cercò di ritornare sulle tracce di Bonatti, Mauri e Cassin lungo quella cresta Nord-Est che non è mai più stata percorsa da nessuno. Gli echi di guerra fra India e Pakistan, che arrivarono fino alle alte quote, e le condizioni meteo impazzite impedirono quell’anno a quasi tutte le spedizioni impegnate nella zona di salire oltre quota settemila. “Abbiamo superato l’enorme cascata di ghiaccio e raggiunto la conca dove fecero il campo Cassin e gli altri – racconta Casella -. Abbiamo allestito un campo ai piedi della cresta di roccia a circa 7.100 metri. Ma ha nevicato talmente tanto che le valanghe arrivavano vicino alle nostre tende. Non abbiamo mai avuto finestre di bel tempo più lunghe di due o tre giorni e abbiamo capito che era meglio tirarsi fuori dai guai”.

Nel 2008 la spedizione Alberto di Iñurrategi, Juan Vallejo, José Carlos Tamayo, Mikel Zabalza e Ferran Latorre aveva come obiettivo la terza ripetizione della cresta Nord Ovest. Gli alpinisti riuscirono a scalarla in stile alpino ma furono costretti a fermarsi sulla cima secondaria di 7.910 metri. Recentemente la mitica Parete lucente, la ovest del Gasherbrum IV, è tornata al centro dei sogni di altri alpinisti.