di Federico Magni
Due visionari su una parete di tremila metri. Soli, in stile alpino, cercano di raggiungere la vetta che sfiora quota ottomila. Imprigionati da una bufera a 7.700 metri, scavano una buca e rimangono per giorni in balia degli elementi. Come due morti viventi sfiorano la cima e fanno ritorno nel mondo dei vivi in una lotta disumana contro la sofferenza, la fame e un terzo compagno, partorito dalla loro mente drogata da fatica e adrenalina, che si prende gioco di loro.
Sono trascorsi trent’anni da una delle storie più “allucinanti” della storia dell’alpinismo: la prima salita della “Parete lucente”, la Ovest del Gasherbrum IV, dell’austriaco Robert Schauer e del polacco Wojciech Kurtyka. Era il 1985 infatti quando i due raggiunsero la vetta Nord (alta 7.910 metri) e furono costretti poi a scendere per restare vivi.
“Ho messo piede nel regno della morte e ne sono tornato indietro; è accaduto nel Karakorum nel 1985, durante una spedizione con Voytek Kurtyka. Il nostro obiettivo era la parete ovest del Gasherbrum IV, quasi 3.000 metri di altezza. Tutti i precedenti tentativi di scalare il “Muro lucente” erano falliti a causa delle difficoltà tecniche, della quota e dell’imperversante cattivo tempo”, scriveva Schauer di quell’esperienza, quasi fosse solo una piccola parentesi nella sua vita, dopo la quale però pensò per un attimo di abbandonare l’alpinismo ad alti livelli.
Dopo la prima leggendaria salita, compiuta da nord est nel 1958 da Walter Bonatti e Carlo Mauri con la spedizione guidata da Riccardo Cassin nessuno all’epoca era più salito sul Gasherbrum IV (7.925 metri). La sua parete ovest è ancora oggi simbolo dell’estremo. Quando ci si addentra sul ghiacciaio del Baltoro, nel nord del Pakistan, la si nota da chilometri di distanza. Passano i giorni e non cambia mai. E’ sempre immensa, da lontano e da vicino. Al tramonto si illumina magicamente facendola sembrare più un luogo partorito dalla fantasia che un monumento della geologia, fatto di roccia e ghiaccio proiettati nel cielo. Lì, trent’anni fa due uomini, vissero il loro più intenso viaggio alpinistico e mentale che, come vedremo, ebbe poco a che fare con la paura.
“Uscire vivi da esperienze come queste è quasi una forma di piacere. Questa alterazione della coscienza ottenuta con metodi assolutamente naturali può essere davvero esaltante. Ti senti irresistibilmente spinto ad arrampicare ancora, magari in condizioni ancora più proibitive – scrive Schauer -. Per uscirne vivi dovemmo chiamare a raccolta ogni briciola della nostra volontà e della nostra abilità”. La prima metà del percorso richiese molto più tempo del previsto; il risultato fu che restarono senza cibo e combustibile. La vetta sembrava ancora una cosa possibile quando una violenta tempesta mandò all’aria definitivamente tutti i piani mentre si trovavano a 7.700 metri. Trascorsero 72 ore mangiando e bevendo pochissimo. In quello stato di apatia era necessario un grande sforzo per distinguere i problemi reali dai fantasmi dell’immaginazione. “Tali privazioni ci resero insensibili al freddo. Mi convinsi che la cordata era composta da tre persone e che la causa della nostra lentezza era stata proprio quel terzo alpinista inesistente. Credevo anche che ci impedisse di dormire: ci tormentava scrollando il telo da bivacco, ci ostacolava in ogni operazione. Con la tempesta di neve cominciarono a cadere valanghe a intervalli regolari. Rannicchiati nella nostra buca non avevamo nulla da temere; le valanghe passavano innocue sui nostri piedi. Ma io avevo la sensazione che il terzo alpinista cercasse di buttarmi fuori”. Stati di confusione si alternavano a momenti di lucidità, fino a quando l’istinto, lo spirito di sopravvivenza ebbe il sopravvento. “All’improvviso mi librai come un gracchio. Percepivo tutte le sensazioni del volo in maniera estremamente intensa: il vento in faccia, il freddo pungente, l’assenza di peso. Potevo guardare giù e vedermi imbozzolato nel sacco a pelo, minuscolo puntino sulla parete gigantesca. Com’era stupido rimanere laggiù, pesanti e goffi, quando in cielo si poteva andare in tutte le direzioni. Ero euforico, non avevo nessuna voglia di tornare nel mio sacco a pelo gelido in quell’orribile buca. Allo stesso tempo ero cosciente della necessità di scendere dalla montagna sano e salvo. Ne avevamo parlato a lungo, tormentandoci in cerca di una soluzione. Se la tempesta fosse durata giorni, qualsiasi movimento avrebbe provocato una valanga mortale. E quanto potevamo resistere senza cibo né acqua? A quelle quote il corpo ha bisogno di 5 o 6 litri al giorno per contrastare la disidratazione e preservare il buon funzionamento degli organi”. Nonostante il forte stato di allucinazione era chiaro a entrambi che l’unica possibilità di salvezza era continuare a salire. In mezzo alla neve fino alle cosce procedevano lenti come lumache. Nel tardo pomeriggio uscirono finalmente dalla parete. Una piccola breccia nella cresta indicava la via di discesa. “Non ci fu bisogno di parole. Non avevamo nessuna voglia di fare qualche metro in più fino in cima”.

Trovarono la via di discesa tra alte balze di roccia e barriere di ghiaccio. Su quella parete quasi verticale, di una levigatezza disperante, la loro strada sembrava costellata come per magia di appigli sicuri. “Le discese in doppia diventavano sempre più pericolose, ma io continuavo a pensare che non ci fosse nulla da temere”. Dopo un’altra notte, un altro giorno e un’altra notte di fatica, misero piede sulla superficie piatta del ghiacciaio. “Mi sembrava di fluttuare a mezzo metro da terra. La realtà era diventata irreale”.