di Federico Magni

Nel 1995 il Club alpino coreano, per il cinquantesimo anniversario della fondazione, organizzò una spedizione al GIV. Hak-Jae Yoo e Sang-Man Shin raggiunsero i 7.800 metri lungo la cresta Nord-Ovest ma furono costretti a tornare indietro. Nel 1997 i coreani erano ancora lì questa volta con un obiettivo preciso: la parete Ovest. “Non avevamo nessun alpinista star nel nostro gruppo – scrive Jae-hag Jung del Club alpino coreano -. E per di più non erano nemmeno stati su una montagna più alta di duemila metri prima di allora. Avevamo però un forte spirito di gruppo”. Il 23 maggio installarono il campo base. “La parte centrale della parete era già stata tentata da almeno sei spedizioni e sette alpinisti erano già stati sacrificati nel tentativo di salire questa parete mortale. Solo Kurtyka e Schauer avevano scalato il lato giusto della parete nel 1985, ma non erano arrivati sulla cima principale. Svetitic fece un tentativo solitario coraggioso. Scomparve nelle nuvole e non tornò più al campo base”.

La spedizione Coreana del 1997 attaccò la parete il 25 maggio. “Dovevamo muoverci nelle ore più fredde per evitare i crolli di ghiaccio e roccia”, scrive ancora Jae-hag Jung.

Il 30 maggio stavano già cercando una via per il campo 2. Dopo aver diviso i compiti con una spedizione spagnola (Kike de Pablo, Jose Carlos Tamayo e Jon Lazkano) che tentava di scalare la cresta Nord-Ovest, proseguirono. La distanza verticale fra il campo 1 e la vetta era di 2.500 metri con solo due possibilità di piazzare campi. “Abbiamo dovuto salire circa 600 metri su una parete con pendenze di 70, 80 gradi per raggiungere un minuscolo balconcino di neve sul quale era possibile installare il campo 2. Quello fu già un trionfo. Dopo le 10 del mattino quando il sole colpiva la parete le rocce e il ghiaccio precipitavano come proiettili”. Un membro della spedizione fu colpito e fu costretto a scendere. Si verificarono diversi incidenti in quota. La sezione fra il campo 2 e il campo 3 fu ancora più impegnativa. Ci vollero 32 giorni di spedizione per superare la “Black Tower” al centro della parete dove i coreani trovarono delle corde fisse lasciate in precedenza e tracce di passaggi fino a 6.400 metri. Durante quel periodo però una forte ondata di maltempo colpì il Karakorum spazzando tutti i campi e distruggendo le tende dei coreani. Altri due membri della spedizione restarono feriti dopo essere precipitati per 25 metri.

Nonostante le difficoltà i coreani però non si scoraggiarono. Si fecero dare alcuni viveri da una spedizione giapponese che rientrava dal K2 e anche i fratelli Inurrategi, impegnati allora su una nuova via al Broad Peak, fornirono loro alcuni materiali.

Il 12 luglio Hak-Jae Yoo e Byung Ki Choi riuscirono finalmente ad installare un campo a 6.800 metri. “Eravamo sulla montagna da due mesi e la stagione si stava per chiudere. Il tempo stava per scadere – scrive Jae-hag Jung -. Realizzammo che avevamo una sola chance per raggiungere la cima”. Riuscirono a forzare la via fino ai 7.200 metri e il 15 luglio pianificarono l’attacco con quattro scalatori. Programmarono tre giorni per raggiungere la cima e un giorno per tornare al campo 3: significava tre bivacchi in quota. Con pochissimo materiale e cibo (otto chili a testa) Hak-Jae Yoo, Dong-Kwan Kim, Jung-Ho Bang e Ki-Yong Hwang lasciarono il campo. Due di loro raggiunsero i 7.200 metri alle tre del mattino. Furono immediatamente investiti da raffiche di vento fortissime. Ki-Yong che rimase più esposto dei compagni iniziò ad avvertire i primi segni di congelamento e fu costretto a scendere. Gli altri raggiunsero i 7.400 metri e bivaccarono su una piccola terrazza di neve. Il 17 luglio lentamente ma in modo costante guadagnarono altri 300 metri. Furono fortunati a trovare un luogo per bivaccare, migliore rispetto al precedente. Il 18 luglio era una giornata perfetta. Partirono alle 4 del mattino. Dong-Kwan guidava il team. Dopo aver salito altri trecento metri raggiunsero il luogo soprannominato “The devil’s brow”. Si guardarono l’un l’altro e scoprirono di essere esausti, ma nessuno aveva la minima intenzione di alzare bandiera bianca. “Affrontammo un tiro su un traverso di trenta metri con una pendenza di 70 gradi. Poi una rampa di 60 gradi. Hak-Jae passò avanti per effettuare delle riprese. Avanzammo ancora per cento metri e finalmente sbucammo sulla cresta. Erano le 12.26”. Dal campo base seguivano i loro movimenti con un telescopio. Effettuarono una ricognizione. Notarono sei pinnacoli sulla cresta sommitale e individuarono il terzo più in alto degli altri. Quella doveva essere la cima. Lottarono ancora con cornici instabili, pericolosi traversi da una parte e dell’altra della cresta e fino all’ultimo metro la salita fu caratterizzata da passaggi pericolosi. Dong-Kwan fu il primo ad arrivare. Fece sicura agli altri compagni e alle 2.27 si riunirono. “Sopra di noi c’era una roccia liscia alta tre metri coperta da una cornice di neve di due metri. Hak-Jae si rese conto che saremmo stati in grado di scalarlo solo se avessimo distrutto la cornice, ma sembrò troppo instabile. Il rischio che crollasse tutto rese inutile percorrere quei metri e così prese la decisione di non andare avanti”. Scattarono poche fotografie e immediatamente iniziarono la discesa. Nel tardo pomeriggio riuscirono a raggiungere l’ultimo bivacco. “Eravamo completamente esausti e Hak-Jae iniziava a lamentarsi a causa dei congelamenti. Decidemmo di stare per un’altra notte, il nostro terzo bivacco consecutivo. Alle 6 del mattino continuammo la discesa. Nel mezzo della discesa Hak-Jae scoprì un corpo a 7000 metri. Era Miroslav Sveticic”. Alle 11 la cordata della cima raggiunse campo II dove li attendevano due compagni per aiutarli nella lunga strada verso il campo base. Al campo 2 uno di loro precipitò a causa del crollo di una cornice e fu trattenuto dalla corda ma perse lo zaino con le pellicole, comprese quelle con le immagini della cima. “Il giorno successivo scattammo alcune fotografie che mostravano chiaramente le nostre tracce che salivano fino alla cresta della cima. Speriamo che altri alpinisti trovino i nostri chiodi sulla cima della montagna”.

In rosso la via di Greg Child, Tom Hargis e Tim Macartney del 1986, in giallo la via coreana e in blu il tracciato di Kurtyka e Schauer del 1985
Foto: http://altitudepakistan.blogspot.com

Dopo il ritorno in Corea Song-Dae e Hak-Jae furono criticati da alcuni alpinisti: ritenevano che non fossero arrivati sulla vera cima della montagna. “Molti erano scettici sulla nostra salita perchè non avevamo fotografie di una bandiera sulla cima della montagna. Eravamo frustrati, non solo perchè non potevamo convincerli, ma anche per l’incredulità fra gli alpinisti. Molti persero di vista l’importanza di una salita come quella sulla parete Ovest del GIV”.

Solo due anni dopo quella spedizione e l’assedio alla parete Ovest un’altra spedizione coreana ritornò in Pakistan per tentare di scalare nuovamente il Gasherbrum IV. Questa volta l’obiettivo era la ripetizione delle cresta Nord Ovest. Il 31 giugno del 1999 in vetta arrivarono Yun Chi-Won e Kang Yeon-Ryong.