Di Federico Magni

La parete Sud del Nuptse venne scalata per la prima volta nel 1961 dagli alpinisti di una spedizione anglo-nepalese della quale faceva parte anche Chris Bonington. Guidati da Joe Walmsley, stabilirono otto campi prima di riuscire a raggiungere la vetta principale il 16 maggio con Dennis Davis e Tashi Sherpa, seguiti il giorno successivo da Chris Bonington, Les Brown, Jim Swallow e Pemba Sherpa attraverso la cresta centrale della parete Sud. Una via ancora oggi irripetuta e l’unica aperta sull’immensa parete che raggiunge la vetta principale della montagna. Un azzardo all’epoca per via delle difficoltà tecniche di una big wall himaliana alta 2.500 metri e larga quasi cinque chilometri.

“Eravamo in marcia da diciassette giorni, dopo essere partiti da Kathmandu – racconta Joe Walmsley nel suo diario -. Io e Chris Bonigton lasciammo il resto della spedizione a Tengboche per raggiungere la base della parete per cercare di individuare una linea di salita direttamente sotto la cima del Nuptse. Fino a quel momento avevamo visto la parete solo in fotografia. Sarebbe stato possibile?”.

Una volta raggiunta la base della parete cercarono il punto esatto per attaccare: “Per due giorni scalammo attorno alla cresta sud, dal ghiacciaio che divide il Lhotse dal Nuptse. C’era un ripido contrafforte di roccia che portava verso la cima, che era però sembrava spoglio di neve e ghiaccio. Dal basso ci apparivano un paio di soluzioni per superare la parte rocciosa, ma sembravano essere molto esposte, ripide senza possibilità di installare campi”.

Della spedizioni facevano parte alpinisti molto forti su quel tipo di terreno ma superare la fascia rocciosa sembrava un azzardo e così anche il lungo traverso successivo ad alta quota. La cosa positiva era che la sezione bassa della parete sembra più facile”.

Nei giorni successivi i componenti della spedizioni si spinsero sempre più in alto con le ricognizioni fino a individuare un punto a 5.700 metri in cui potevano vedere molto bene la linea di salita fra la cresta ovest e quella centrale.

“Tra le due creste c’era una tremenda parete di roccia che sbarrava l’accesso per centinaia di metri in tutte le direzioni – riporta Walmsley -. La prospettiva ci permetteva di capire che ci avrebbe portato verso la cima principale”.

Quando il resto della comitiva raggiunse i piedi della montagna fu installato il campo base vero e proprio. Il 12 aprile 1961 Walmsley e Le Brown partirono dal campo base per perlustrare l’attacco verso la cresta. “Tutto attorno sembrava un terreno di battaglia fatto di roccia e ghiaccio. Le forze del ghiacciaio spingevano tonnellate di rocce che ogni tanto precipitavano verso il basso. Ci ritrovavamo ad arrampicare attraverso zanne di ghiaccio, incastonate come lance nella montagna. Un mondo barcollante pronto a caderti addosso. Fu un vero sollievo quando raggiungemmo la parte finale del ghiaccio e mettemmo i piedi sulla neve più dura”.

La spedizione riuscì a fissare campo I dopo aver superato una serie di pendii non troppo impegnativi, accompagnati da un caldo sole. Da quel punto individuarono la linea di salita attraverso un camino che tuttavia sembrava troppo pericoloso. Decisero di provare prima per un couloir che si rivelò però soggetto a scariche di pietra. Scelsero il camino.

“Un passaggio che richiedeva grande attenzione, nonostante ciò la progressione fu abbastanza rapida e presto ci trovammo non molto lontano dalla linea di cresta. Sentivamo gli effetti di una progressione che ci aveva portavo via tutte le forze e decidemmo di scendere al campo base anche perchè la via per raggiungere la cresta in quel momento non era molto chiara”.

Il 13 di aprile Dennis Davis e Nawang Dorje aprirono le danze verso la cresta. Riuscirono a piazzare campo II mentre Bonington, Swallows, Clark e tre sherpa salivano verso il Campo I: “In due giorni scalammo oltre seicento metri dal campo base al campo II”.

Anche Bonington e Davis il giorno successivo raggiunsero il campo II con il materiale. Da quel punto in poi potevano vedere la cresta che più in alto era interrotta da una parete di roccia sormontata da un ripido pendio di ghiaccio. I due raggiunsero la base della parete e decisero di effettuare un traverso che lì portò a un prima cengia e poi un camino.

“Guardando in alto riuscimmo a scorgere una piccola sporgenza in cima al camino e una rampa di ghiaccio che portava verso il cielo blu. Bonington riuscì a forzare il passaggio facendo opposizione con il corpo e strisciando sulla parete di roccia liscia. Verso l’uscita riuscì a piazzare un chiodo. Un passaggio di roccia particolarmente duro a 5.700 metri”.

I due fecero grandi progressi, tagliando gradini e piazzando corde fisse su pendii di 50 gradi. La via affrontava tutto ciò che uno scalatore cerca a quelle quote: esposizione e la sensazione di doversi sempre muovere con la massima attenzione. Dopo aver superato una parete di ghiaccio riuscirono finalmente a trovare un logo dove piazzare campo III. Uno spazio tuttavia troppo ristretto. Mentre dal basso attrezzavano la via e rifornivano i campi i due continuarono verso l’alto i giorni successivi, scoprendo che il punto più difficile della via doveva ancora arrivare. Furono costretti a scalare sul versante esposto a Est della cresta, poi ancora sezioni di roccia. Decisero di effettuare un altro traverso attorno a un gendarme di roccia. Aggirarono un pilastro che li portò nuovamente sul versante ovest e poi furono addirittura costretti a strisciare all’interno di un tunnel per ritornare sulla parte est. La linea continuò con una serie di cavalcate aeree lungo la cresta. Si portarono sempre più in alto sulla parete fino a raggiungere un anfiteatro che assomigliava al bordo affilato di una scimitarra piazzata proprio lì nel bel mezzo di un mondo verticale. Da quel punto si innalzava sopra di loro una parte complicata e pericolosa ma inaspettatamente individuarono un angolo rotto e un pendio che li portò facilmente più in alto. Cercarono un posto per piantare un nuovo campo ma ancora lo spazio era troppo piccolo. Stanchi decisero di fare dietrofront e scendere fino a campo III.

Les Brown e John diedero loro il cambio e faticosamente riuscirono a portare sempre più in alto il campo IV. “Era ovviamente una via molto pericolosa – scrive Joe Walmsley -. Tentarono più volte di forzare la parte superiore della via dopo aver stabilito il campo, ma la cresta divenne sempre più sottile tanto da diventare inconsistente”.

Decisero di tornare indietro. Ci provarono Bonington e Simon che invece di seguire la cresta troppo pericolosa, decisero di affrontare un traverso in orizzontale. Una linea che affrontava le difficoltà molto più in basso rispetto a quella precedente e sembrava abbastanza sicura. Raggiunsero così una sezione di ghiaccio che attraversarono per parecchi metri. Dopo una dura lotta riuscirono finalmente a superare il punto più alto raggiunto in precedenza e trovarono un posto adatto e abbastanza spazioso per ospitare definitivamente il capo IV. Era il 28 aprile.

Dal diario di Dennis Davis: “Avevamo superato le difficoltà della prima parte della parete e rimaneva l’ultimo grande problema: la grande fascia di rocce lassù in alto. Significava un lavoro ancora più duro per progredire in quota”.

La fase successiva della spedizione fu dedicata a individuare i luoghi adatti per altri campi. Soprattutto dopo la grande rampa ghiacciata sopra campo IV che ci avrebbe evitato di continuare a tornare in basso ad ogni tentativo. Io e Jim Swallows impiegammo ore per ricavare una piazzola adatta per una tenda per il campo V. Fu in quel momento che furono mandati i rinforzi dal basso. Soprattutto Pemba e Tashi sherpa che si sarebbero occupati anche della cucina. Davis e Tashi forzarono la parte successiva fino a riuscire a piantare campo VI. “Servirono diversi giorni, accompagnati fortunatamente dal tempo sempre bello, per riuscire a forzare la via attraverso le difficoltà della fascia rocciosa che sembrava sempre di più la chiave per il successo della spedizione. Ogni mattina ci svegliavamo e lasciavamo le tende attorno alle 7.30 salendo metro dopo metro. Stranamente nessuno stava salendo dai campi IV e V in supporto. Sentii un forte senso di frustrazione per quello che poteva rischiare di diventare in ogni momento un fallimento. Ma si accorgevano le persone là in basso che qui c’era un clima perfetto?”.

Servivano rinforzi dopo un duro lavoro in quota. Salirono ancora più in alto riuscendo a piazzare campo VII. Quando furono di ritorno trovarono un’altra tenda a campo VI. I rinforzi erano arrivati.

“Io e Tashi il mattino successivo ritornammo sui loro passi per portare altri materiali fino al punto raggiunto in precedenza in modo che Bonington e Les Brown potessero riposare là per l’attacco successivo. Per superare la parte rocciosa cercammo di aggirarla sulla destra, dove però c’era un pendio di neve soffice, caduta poco prima, che sembrava pronto per staccarsi con tutti noi sopra”.

Gli scalatori riuscirono a trovare un camino che attrezzarono con le corde fisse. Superare quei passaggi costò tante energie e appena sopra cercarono un luogo dove piazzare un nuovo campo. A quel punto avevano raggiunto i 6.850 metri. Il lavoro dei giorni successivi sarebbe stato quello di aprire la via attraverso il pendio fino alla cima del couloir che porta sulla sella, appena a sinistra della cima.

“Sembrava così incredibile che al punto fossimo così vicini alla vetta – scrive Davis -. Dovevamo discutere la tattica per i prossimi giorni”.

Davis e Tashi partirono per attrezzare la via fino al campo VIII e continuare all’interno del couloir, salendo il più in alto possibile. Effettuarono un lungo traverso che, con il carico che trasportavano, costò loro parecchie ore . A quel punto si trovavano settemila metri, già dentro il couloir, quando realizzarono che si faceva tardi. Non c’erano posti adatti per un campo. E impiegarono due ore solo per ricavare uno spazio per una tenda. Alcune raffiche di vento rischiarono di scaraventare la tenda giù dalla parete e quando gli scalatori si misero all’interno una parte di ghiaccio cedette. Trascorso una notte difficile con i piedi nel vuoto. Il giorno successivo fu impiegato per gradinare il couloir fino alla sella e preparare il terreno per l’attacco finale alla vetta.

“Tutta la frustrazione delle ultime ore e l’ansia per tutti i pericoli si trasformò a quel punto, velocemente, in determinazione per raggiungere la cima. Avevamo cibo sufficiente e vestiti abbastanza caldi”.

Nel campo alto a circa 760 metri dalla cima, alle 4 del mattino, gli alpinisti inglesi e nepalesi si prepararono. Alle 6.30 del 16 maggio iniziarono percorrere un traverso all’interno del grande couloir: “Tagliavamo gradini abbastanza larghi perché sarebbe stata una lunga giornata e molto probabilmente quando saremmo ripassati di lì sarebbe stato molto tardi. La sella sembrava appena lì sopra, ma dopo tre ore trascorse a tagliare gradini nel ghiaccio era ancora incredibilmente lontana. A un certo punto sembrava che non l’avremmo mai raggiunta”.

Finalmente dopo sette ore riuscirono a toccarla: “Raggiungemmo alcune rocce per una pausa. Eravamo a 7.600 metri e a quel punto ne mancavano 200 alla cima. Avevamo speso parecchie energie nel couloir ma lì fermi per una pausa stavamo iniziando a recuperare. Il giorno successivo il tempo sarebbe potuto potrebbe velocemente. Con un leggero senso di angoscia decidemmo di continuare lungo la cresta di neve e roccia senza aspettare gli altri. Riuscivamo a vedere la cresta Ovest del Nuptse e attorno ai noi si apriva il panorama delle altre cime e quello degli altipiani del Tibet. La cresta che ci aveva dominato per tutto quel tempo era ormai là sotto. Dovevamo esserci ormai. Aggirammo un angolo e vedemmo un mucchio di neve di fronte a noi. Erano ormai le 4 del pomeriggio e sembrava troppo distante da raggiungere. Sembravano miglia. Salimmo sul mucchio di neve. Era un’illusione ottica. Ora la cima era lì a pochi passi. Mi fermai e dissi a Tashi di continuare per immortalare con una fotografia il momento esatto del nostro successo. Tashi attraversò una sottile cresta e calcò la neve della vetta del Nuptse. Lo seguii poco dopo”.

Il giorno successivo Chris Bonington, Les Brown, Jim Swallow e Pemba Sherpa seguirono le loro orme fino alla cima.