LA CONQUISTA DEI FRANCESI

Di Federico Magni

Con i suoi 7710 metri e le sue pareti verticali sovrapposte, questo colosso granitico pareva rappresentare la sfida più complessa che la natura avesse lanciato al coraggio e allo spirito di conquista degli alpinisti. Tentare un’impresa del genere non era un passo avanti, ma un salto vero e proprio”. Con queste parole il grande alpinista francese Lionel Terray descrisse i sentimenti che prospettava l’idea di scalare lo Jannu, l’imponente picco del Nepal orientale che si trova poco distante dal Kangchenjunga e considerata una delle montagne più difficili da scalare a causa della sua struttura complessa.

E infatti i francesi dopo la vittoria sul Makalu e i successi delle spedizione alla Torre Muztagh e al Chacraraju iniziarono a guardarsi intorno cercando qualcosa di estremo. E fu così che il Comitato per l’Himalaya, su proposta di Jean Franco, adottò un progetto assolutamente inedito: l’assalto a una delle più spettacolari montagne ancora vergini, appunto lo Jannu.

Nell’autunno del 1957 una spedizione condotta da Guido Magnone partì in ricognizione per valutare quali possibilità di scalata offrisse lo Jannu. Ritornò con le fotografie di una muraglia immensa, tormentata da grandi seraccate e pareti. La continuità e la durata delle difficoltà non erano paragonabili a quella di nessun’altra scalata.

La squadra fu messa insieme solo nel 1959. Era guidata da Jean Franco. La via indicata da Magnone si rivelò troppo esposta e fu trovato un altro itinerario ancora più difficile ma possibile. “Si snodava sui fianchi di un’anticima. Avevamo scelto la difficoltà massima e le nostre probabilità di successo erano minime”.

Dopo il successo sul Makalu nel 1955, i francesi erano convinti di “esportare il modello” sulle montagne considerate invincibili.

Il 12 aprile del ‘59 i francesi si trovarono faccia a faccia con lo Jannu. “Non una montagna, ma piuttosto uno sbarramento di muraglie, di creste tormentate, di ghiacciai pensili spaventosamente ripidi”, fu quella la prima impressione.

Una volta installati i primi campi si accorsero immediatamente della minaccia che rappresentava la grande muraglia quando un’enorme valanga si staccò dalla caratteristica conca in quota (che ribattezzarono “il Trono”) e spazzò via tutta la parete Sud Ovest risparmiando miracolosamente gli alpinisti che erano impegnati già in alto. Quel rischio e le osservazione di Terray convinsero la squadra a cambiare la via rispetto l’originale lungo il versante Sud-Ovest. “Non eravamo stati noi a scegliere la nuova via, lo Jannu ce l’aveva imposta”. Nelle settimane successive riuscirono a portare i campi sempre più in alto, e rifornendoli con un lungo ed estenuante lavoro di squadra. Nei primi giorni di maggio pensavano si avvicinasse l’offensiva finale. “Sembrava possibile con l’aiuto dell’ossigeno che avrebbe raddoppiato le nostre forze come sul Makalu”. Il campo 5 fu installato a 6.900 metri e lo Jannu sembrava avere le ore contate. I ripidi pendii che sovrastavano il campo e poi improvvisamente il granito compatto furono il terreno dell’impresa personale di Jean Bouvier.

Poi placche trasparenti dure come il vetro e ancora rocce e strapiombi, e finalmente la cresta Sud a 7350 metri. Erano esausti e ormai faceva tardi. Iniziò a nevicare e abbandonarono alcuni materiali e la tenda prima di scendere. Il primo tentativo alla vetta era fallito. Il giorno successivo un’altra squadra riuscì a salire fino alla cresta Sud, “una lama tagliente sospesa fra due abissi”. Piantarono il campo 6 in prossimità di due “gendarmi”. Il giorno successivo impiegarono tutta la giornata per superare 70 metri. “Neve fresca, pendii ripidissimi, placche vetrate. Bisognerebbe usare dozzine e dozzine di chiodi, fissare altre corde, poi ridiscendere, alternarsi. Se avessimo insistito non saremmo tornati”. L’avventura sulla montagna finì in quel momento e i giorni successivi furono impiegati per ridiscendere e recuperare il possibile. Rimase lassù il campo 6, unico testimone della visita dei francesi. Abbandonarono più di duemila metri di corde fisse, centocinquanta viti e chiodi. “Lo Jannu non si era arreso, ma era rimasto incatenato”.

Passarono mesi in cui i francesi analizzarono gli errori. Buona parte della colpa fu data agli apparecchi dell’ossigeno rivelatisi troppo ingombranti. Ma ci vollero altri tre anni prima che i francesi riuscissero a organizzare una nuova spedizione.

Nel 1962 quindi tornarono sulla loro via con una spedizione guidata da Lionel Terray. Era il 14 aprile quando ricominciò la battaglia per il campo 5. Sopra di loro si drizzava la gigantesca parete terminale, ultima bastionata difensiva dello Jannu. La conquista del campo 6 che avvenne il 25 aprile, il luogo raggiunto durante l’ultima spedizione, fu ancora più impegnativa. I giorni successivi riuscirono a superare il punto raggiunto precedentemente su una parete verticale, a piccole cenge. Utilizzando svariati chiodi riuscirono a vincere l’ultima guglia e raggiungere i 7.400 metri sotto la parete terminale. Lì abbandonarono quattro bombole di ossigeno e parecchia attrezzatura. I giorni successivi le altre squadre si diedero il cambio.

Il 27 aprile fu il giorno dell’attacco decisivo. “Sulla cresta deve essere stato un inferno – scrive Terray -. Gli amici lottano contro le raffiche a trenta gradi sotto zero che impediscono l’avanzata. Enormi turbini di neve volteggiano lungo la cresta ed avvolgono i nostri compagni”. Proseguono tenaci. “L’ostinazione dei compagni mi impensierisce. In preda all’entusiasmo, vedendo la vittoria a portata di mano, non c’è il rischio che si lascino tentare, spingendo l’assalto finale oltre i legittimi margini di sicurezza? Non finiranno con mani e piedi congelati? Alle 16: 30 vedo una sagoma sottile stagliarsi sulla cima. E’ fatta. Lo Jannu è stato vinto”. Robert Paragot, Paul Kellar, René Desmaison, e Sherpa Gyalzen Mitchu riuscirono così a raggiungere il punto più alto. Rischiarono un bivacco all’aperto, ma riuscirono solo intorno alle 22 a raggiungere le tende del campo 6 dove li attendevano i compagni. Gyalzen ebbe principi di congelamento. Il tempo restò però ancora incredibilmente bello. “Il cielo è cosparso di stelle. Ci sembra che la fortuna ci sorriderà ancora. La seconda squadra formata da Jean Ravier, Lionel Terray e Sherpa Wongdi si prepararono. “Per quattro giorni ci siamo alternati in undici per rosicchiare centimetro per centimetro una parete vergine ed attrezzarla con corde fisse. Per una strana contraddizione noi francesi noti in tutto il mondo per lo spiccato senso di individualismo, stiamo dando un esempio significativo dell’efficacia del lavoro di squadra”.

Quando sbuchiamo sopra le ultime rocce, scorgiamo Bouvier e Leroux che si stagliano sull’esile punta della vetta – scrive Terray – Quando arriviamo a una quarantina di metri dalla cima la prima cordata incomincia a calarsi. Ed ecco così sorgere un problema imprevisto: un ingorgo stradale a quota 7.700 metri sull’aerea cresta dello Jannu. Tuttavia riusciamo a passare grazie ad una serie di stupefacenti contorsioni. Mentre l’alpinista che sta salendo rimane a cavalcioni della cresta, quello che scende lo afferra per la vita, vi si appende di peso con un delicatissimo pendolo, si installa nuovamente dall’altro lato. Alle 10 con un ultimo colpo di reni mi drizzo sulla cima. Rimaniamo lì inebriati, assaporando questi istanti veramente unici. So che il ricordo di questi minuti sublimi sarà come un tesoro per il resto della mia esistenza e che in mezzo alla tristezza, alla bruttura e nella mediocrità degli uomini potrò sempre trovare un rifugio in questi attimi. Che questa cima mi darà sempre un raggio di luce e di gioia”.