TOMO ČESEN, SOLO SULLO JANNU
Di Federico Magni
È il 1989 quando Tomo Cesen, fra i più forti alpinisti sloveni degli anni ‘80, allora non ancora trentenne, rivolse il suo sguardo alla parete Nord dello Jannu. 2.800 metri di placche verticali incrostate di ghiaccio perennemente in ombra, con pendii di neve incredibilmente ripidi, una miriade di canali verticali nei quali scrosciano le frane: una somma di problemi alpinistici fra i più difficili sulle più alte montagne del mondo. E soprattutto: da solo.
“La parete Nord, una delle più difficili del mondo, costituiva, rispetto alle ascensioni che avevo realizzato sino ad allora, una sfida alla quale non potevo sottrarmi. Erano in molti a ritenere che la parete non fosse risolvibile nel mio stile. Io non ero d’accordo fin dal principio e probabilmente ero uno dei pochi a credere nelle mie possibilità…Oggi, com’è naturale, non rimpiango affatto di aver persistito nella mia idea di affrontare la parete da solo e in stile alpino”.
Uno dei primi problemi una volta arrivati al campo base fu quello dell’acclimatazione necessaria ad affrontare in buone condizioni fisiche una parete del genere in solitaria e soprattutto individuare una via su una muraglia dove l’uomo perde ogni dimensione.
“Sulle foto che avevo osservato a casa, avevo creduto di individuare un canalone che dal centro della parte alta avrebbe consentito di raggiungere direttamente la vetta, mentre ora la realtà dimostrava che avrei dovuto cambiare piano. Per fortuna mi era noto, e accettato, il fatto che fosse praticamente impossibile studiare teoricamente una via di salita su una parete così complessa e difficile”.
Con queste premesse e osservando attentamente gli intervalli fra una caduta di seracchi e l’altra, oltre al meteo, il 27 aprile del 1989, appesi i chiodi e la lama di ricambio, calzati i ramponi e impugnata la picozza, Cesen attaccò la parete. Con lui aveva il casco e una corda. Nello zaino portava qualche indumento di ricambio, guanti, occhiali, cibo e una borraccia, un sacco a pelo leggero e un sacco da bivacco.
“Sapevo già prima di partire da casa come, con lo stile di scalata che avevo in mente, fosse assolutamente impossibile portare tutto il necessario per far fronte a ogni situazione. Con uno zaino pesante si arrampica più lentamente, di conseguenza si passa più tempo in parete il che a sua volta significa che bisogna portare ancora più cibo e bevande. Lo zaino diventa così sempre più pesante e poi, da un errore iniziale, nascono i problemi”.
Nella prima parte Cesen arrampica su immensi seracchi sui quali la qualità del ghiaccio non è sempre buona. Un dedalo di grandissime dimensioni nel quale un uomo appare insignificante mentre ogni tanto qualche blocco di ghiaccio precipita con un tonfo dalla parte alta della montagna. L’alpinista scala anche di notte: che in quelle condizioni rappresenta la sicurezza. Il nuovo giorno lo coglie in cima al ghiacciaio a metà parete. Da quel punto in poi avrebbe dovuto vedersela con una serie di pendii di ghiaccio incredibilmente ripidi e saldati a placche di granito levigato. Ghiaccio, roccia, poi ancora ghiaccio e placche lisce. Una placca di granito inclinata sbarra il passo verso l’ultimo nevaio e gli scarponi doppi di plastica erano quanto di meno indicato per un’arrampicata in aderenza. “Iniziai tentando di far presa con la picozza su qualche sottile lastrina di ghiaccio che aderiva alla roccia in modo da alleggerire il carico sulle punte dei ramponi, e tutto con una lentezza incredibile. Riesco a malapena a descrivere il sollievo che provai quando giunsi quasi strisciando alla sommità della placca e infissi le picozze nel pendio di ghiaccio soprastante. Decisamente non fu una lunghezza per deboli di cuore anche se, mentre la superavo, non ero pienamente consapevole della sua delicatezza”.
Sopra mancava ancora da superare tutto il settore di parete sopra i settemila metri. Colatoi verticali incrostati da sottili strati di ghiaccio rappresentavano l’unica via di uscita. “Tutto questo mi stimolava a proseguire e forse nel subconscio già sapevo che lo Jannu sarebbe stato mio. Non era visibile nessun tratto intermedio più facile: questo significava che potevo solo cercare di indovinare intuitivamente quale fosse la linea di salita più agevole. Ricorsi ai chiodi quattro volte, quando i passaggi si presentarono troppo faticosi per abbandonarsi a pericolose acrobazie”. Cesen seguì una serie di fessure che in alcuni punti fortunatamente si allargavano abbastanza da permettergli di incastrare un piede per una breve sosta e rubare ossigeno all’aria dei settemila metri. A un certo punto dovette far ricorso anche a un pendolo quando un colatoio che aveva seguito si perdeva su una placca. Solo guardandosi intorno notò una fessura stretta che riuscì a superare dopo aver raggiunto la sommità di una stalattite di ghiaccio cercando di non frantumarla.
Raggiunta la fessura piantò un chiodo con il fiato sospeso e da lì con il pendolo, lontano sulla sinistra, riuscì a imboccare la continuazione del colatoio e finalmente proseguire. “Non si può mai sapere con esattezza cosa si troverà in alto, sulla cima. Ma si prosegue, senza sapere veramente perché. Si è svuotati ed esausti, e il senso di solitudine fa sembrare tutto ciò anche più insopportabile. E’ completamente svanita quella spinta, quel desiderio di riuscire, così forte alla partenza. Ci si può aspettare al massimo un attimo di euforia che ci riscaldi, ma senza più gioia. Si è totalmente esausti, troppo esausti per poter provare qualche sensazione”. Così Cesen descrisse la vetta del suo Jannu, dopo aver aperto “La via jugoslava” in 23 ore. Bisognava scendere e il solito cattivo tempo stava per arrivare. Si avviò velocemente verso la via dei Giapponesi per scendere il più in basso possibile prima dell’oscurità. Raggiunse la spalla e poi giù in doppia in piena parete ma ormai si era scatenata una tormenta. Fu costretto a bivaccare in una zona di seracchi, all’interno in “un gigantesco congelatore”, a più di ottocento metri da una zona di “salvezza”.
Durante la notte quando le prime stelle fecero capolino e poi la luna che incominciò a illuminare la montagna decise di scendere. Aveva ancora due viti da ghiaccio ma alcune doppie furono effettuate incidendo con le picozze un fungo di ghiaccio al quale assicurarsi. Continuò a scendere nell’oscurità. Una volta raggiunta la seraccata inferiore ricorse ancora alla corda doppia. Con le prime luci dell’alba il fisico era completamente svuotato e 41 ore dopo aver iniziato la salita ritornò alla base della montagna. “Per molti la mia scalata al Jannu segnò l’inizio di una nuova era nell’alpinismo himalayano. Quel che più contava per me era tuttavia il fatto che ero riuscito a portare a termine la scalata nel mio stile, cosa in cui avevo la massima fiducia. Quanto al Jannu poi, non rappresentava che una parte di ciò in cui credo”. Come accadde poi per la solitaria sulla parete Sud del Lhotse anche lo Jannu di Tomo Cesen suscitò diverse polemiche, tanto da essere messo in dubbio dalla comunità alpinistica.