LA DIRETTA ALLA PARETE NORD

Di Federico Magni

Quanto fosse sentito come problema alpinistico a cavallo fra gli anni Novanta e il nuovo Millennio la diretta alla parete Nord dello Jannu lo dimostra il tentativo di una cordata di superstar come quella formata da Erhard Loretan, Fredric Roux, Ueli Steck e Stefan Siegrist costretti a rinunciare dopo aver toccato quota 7.100 a causa delle pesanti nevicate che avevano flagellato la regione del Kangchenjunga nel 2003. Loretan e Steck ci avevano già provato anche l’anno prima. Ci provarono poi anche i russi nell’autunno del 2003.

Big Walls-Russian Routes è il nome che solitamente viene dato a una serie di spedizioni che, a partire dal 1996, ha cercato di scalare una decina di nuove vie estreme su alcune delle più famose big walls del mondo. Uno di questi obiettivi era la “diretta” che ancora mancava alla parete Nord dello Jannu. La spedizione che puntava alla più difficile parete della cima nepalese di 7.710 metri, ribattezzata anche “Parete delle ombre”, era guidata da Alexander Odinstov. Della partita facevano parte Alexey Bolotov, Mikhial Davy e Mikhail Pershin, Alexander Ruchkin, Ivan Samoilenko e Nickolay Totmjanin. E infine con loro c’era anche Mikkail Mikhailov da Bishkek in Kyrgyzstan. Dopo un periodo di scalate nel Tien Shan con l’obiettivo di acclimatarsi a dovere per affrontare le difficoltà in quota sullo Jannu il team raggiunse il Nepal nell’agosto del 2004. Dopo il lungo trekking per raggiungere la regione del Kangchenjunga piazzarono il campo base l’8 settembre.

Una delle sezioni più pericolose da affrontare fu proprio quella alla base dell’immensa parete Nord e lungo la via nel tentativo di raggiungere il plateau di ghiaccio a 5.600 metri direttamente sotto la parete. Fu in quel punto infatti che Mikhailov fu colpito da un blocco di ghiaccio mentre si trovava a circa 5.300 metri, si ruppe diverse costole che gli provocarono anche la perforazione di un polmone. Fu soccorso ed evacuato in fretta e furia e portato all’ospedale di Kathmandu. Nel frattempo il team continuò il lavoro e il campo II fu installato a circa seimila metri ma le difficoltà tecniche e la pericolosità dello Jannu misero a dura prova la spedizione. Lo stesso Odinstov si ruppe una mano e fu costretto a ricorrere alle cure mediche nel villaggio di Ghunsa e nel frattempo anche Samoilenko, cameraman specializzato nelle riprese in alta quota fu costretto a tornare a Kathmandu. Per il 4 ottobre, nonostante le condizioni meteo non furono mai così clementi, i restanti cinque scalatori della spedizione continuarono a salire fino ai settemila metri dove riuscirono a scavare una minuscola buca nel ghiaccio dove poter trovare riparo. Nei giorni successivi riuscirono a fissare altre corde sulla parete verticale per altri duecento metri più in altro di qualsiasi altro tentativo sulla parete Nord dello Jannu. Sembrava finalmente andare tutto per il verso giusto quando il tempo improvvisamente si guastò. Iniziò a nevicare pesantemente e gli scalatori russi furono costretti a scendere e ritornare al campo base. Dopo tre giorni di nevicate costanti l’inverno scese sulla montagna e il rischio di valanghe diventò troppo grosso per continuare e la spedizione fu costretta a rinunciare all’obiettivo.

La primavera successiva il team russo guidato ancora una volta da Alexander Odinstov era nuovamente ai piedi della parete. Questa volta la squadra era formata da Alexander Ruchkin, Nikolay Totmyanin, Sergey Borisov, Gennady Kirievsky, Alexey Bolotov, Mikhail Pershin, Dmitry Pavlenko, Mikhail Mikhailov, Ivan Samoylenko e Mikhail Bakin. Raggiunsero il campo base il 5 aprile e la parete apparve più pulita rispetto alla stagione precedente. Il 7 aprile il primo gruppo formato da Bolotov, Borisov and Kirievsky era già sulla via. In due giorni il primo campo fu installato a 5.600 metri ma il tempo continuava a rimanere instabile come in autunno. Solo il 21 aprile riuscirono a raggiungere i settemila metri. Intanto il tempo si era guastato nuovamente con nevicato evento forte. Impossibile continuare per il pericolo di valanghe. Solo dopo due giorni di nevicate continue riuscirono a fuggire verso i campi bassi. Gli scalatori esausti oltre ogni limite furono rimpiazzati da un’altra squadra. Mikhail Mikhailov, Alexander Ruchkin and Dmitry Pavlenko tornarono sulla parete. Il freddo si mantenne intenso per tutto il periodo. Solo il 14 maggio riuscirono a raggiungere quota 7.500 metri. Riuscirono a fissare quasi tremila metri di corde in una lotta disumana con gli elementi della montagna. Dopo aver superato il punto più alto raggiunto durante l’ultimo tentativo, i bivacchi più alti furono possibili solo con l’utilizzo di una portaledge oltre i 7.400 metri. Ci furono giorni in cui il team lavorò un’intera giornata per superare solo trenta metri perchè dai settemila metri in poi la parete di granito si impennava inesorabilmente senza mai lasciare tregua.

Nessun’altra parete aveva richiesto quello sforzo di gruppo prima. “Fu come una guerra e ci furono anche i feriti. Dei 10 alpinisti della spedizione solo tre non si sono fatti male, 7 hanno avuto parecchi problemi”, raccontò Odinstov. Contusioni alla testa, ossa rotte, cecità…i pericoli erano ovunque. Il 22 maggio Mikhailov diede segni di edema e fu fatto scendere. Intanto Ruchkin e Pavlenko raggiunsero i 7.600 metri. La roccia era instabile, fu difficile proteggersi. Il 26 maggio Ruchkin e Pavlenko fecero il balzo decisivo verso la vetta, superando due tiri complicati. Finalmente raggiunsero la cresta finale. Furono inquadrati dal telescopio del campo base all’1 p.m. prima che le nuvole avvolgessero la montagna e arrivano in cima alle 3 p.m completando finalmente la prima salita della parete nord dello Jannu. Il 28 maggio anche Totmyanin, Kirievsky e Borisov raggiunsero la cima e lo stesso giorno riuscirono a scendere fino al campo piazzato a 7000 metri. “In trent’anni di storia 25 team di tutto il mondo hanno cercato di salire la via diretta al pilastro nord dello Jannu: non ce l’hanno fatta. E si può essere certi che erano fra i migliori al mondo.

Se fossimo stati un’armata di 5 persone, se la nostra armata fosse stata troppo piccola, avremmo perso prima ancora di riuscire ad arrivare all’ultima parte della salita, la più ripida. Se avessimo provato a salire questa parete in stile alpino avremmo dovuto vivere per un mese a 6500m. Nella nostra situazione, nella società mondiale degli alpinisti, tutti possono capire che era impossibile. C’erano due possibilità: o avere dei membri di un team estremamente forte, più forte della gente normale che arrampica, o ci si doveva muovere più veloci. Non esiste essere umano che riunisca in sé queste capacità. Non è possibile trovare un essere umano che possa vivere a settemila metri così a lungo, su una parete e delle difficoltà come quelle dello Jannu. Non è umanamente possibile”, raccontò a Planetmountain Odinstov dopo la vittoria del Piolet d’Or 2004 per la salita della Nord dello Jannu.