Simone Pedeferri (Cantù 1973) è da almeno 25 anni ai vertici dell’arrampicata in Italia, capace di eccellere in tutte le discipline, dai blocchi alle big wall lontane da casa. Ha scalato in tutto il mondo: in Pakistan, Algeria, Mali, Patagonia, Messico e Oman solo per citarne alcuni e ha ripetuto ed aperto numerose vie in ogni parte delle Alpi. Ora vive in Valmasino dove ha salito alcune delle sue migliori realizzazioni fra cui Joy Division (700 metri 8b) sul Qualido, Adventure Time sulla Meridiana del Torrone (500 metri 8b/c) oltre a numerose prime libere, concatenamenti e alla maggior parte dei blocchi e dei monotiri di alta difficoltà della Valle.

Nunca mas marisco, Cochamo. Foto Giovanni Ongaro
Di Luca Schiera
Da quanti anni ti alleni?
Mi alleno da 29 anni, da quando ne avevo 18. All’inizio, con Marchino (Marco Vago ndr) e tutti gli altri, scalavamo e basta. Riuscivamo ad andare tre volte alla settimana, poi in inverno sciavamo. Così ho fatto per i primi tre anni e sono riuscito ad arrivare ad arrampicare fino al 8a, erano i primi anni ‘90.
Quando abbiamo iniziato ad allenarci le idee erano abbastanza nebulose, nel nostro gruppo c’era un ragazzo che si chiamava Giovanni Calori che faceva l’isef e aveva cominciato a pensare a degli allenamenti così abbiamo iniziato tutti ad allenarci con le sue tabelle. Eravamo una decina, di questi nove si sono rotti, l’unico che è rimasto intero sono stato io. Ma se guardi i carichi che facevamo erano delle cose mostruose, o miglioravi o ti spaccavi.
Come sono cambiati i mezzi e i metodi rispetto a venti anni fa?
All’inizio c’era solo la sbarra e facevamo tutto con quella, il pan gullich non si conosceva ancora perché gli unici sistemi di comunicazione erano quattro riviste, sull’allenamento non c’erano molte cose. C’erano i primi travi, strutture di arrampicata indoor non esistevano, c’era solo a Zogno una palestra ma con le prese attaccate sui muri. Il primo pannello l’ho costruito intorno al ‘94 o ‘95, cominciavano ad esserci i primi appigli in vendita ma facevano paura, alcuni li ho ancora adesso, era 2x2m inclinato a 40° con appigli medi e piccoli, facevo blocchi e circuiti. I primi allenamenti erano tante isometrie e trazioni con grandi carichi sempre a due mani, così il giorno che ho provato a fare una trazione monobraccio ho scoperto che non era difficile. La falesia era ancora un allenamento per la montagna, l’obiettivo erano le vie lunghe. C’erano i primi falesisti puri ma noi venivamo da un ambiente alpinistico, ci eravamo formati in Grigna e Dolomiti quindi l’estate era dedicata all’alpinismo. In inverno andavamo in Medale ma solo più tardi abbiamo iniziato ad arrampicare in posti invernali e così poi abbiamo iniziato a chiodare dei tiri anche noi.
Rispetto alla falesia quali differenze credi ci siano sulle vie?
Allora non c’era la differenza, l’allenamento andava bene per tutti e due. Dopo i primi cinque anni di apprendistato era chiaro che si voleva portare il livello che avevamo raggiunto in falesia anche in montagna. Il primo ad avere avuto questa idea era stato Marchino, probabilmente aveva letto delle cose di Kurt Albert e Mariacher. Le vie erano affrontate solo a vista, non c’era l’idea di riprovare i tiri. Quando abbiamo cominciato a lavorare le vie l’allenamento si è evoluto poi in quella direzione. L’approccio era completamente diverso rispetto ad adesso, l’esempio è: se c’era scritto A1 dovevo fare la libera e proteggermi il meno possibile, se non piazzavo niente per me era la cosa migliore, solo dopo ho iniziato a pensare di mettere qualcosa di protezione nel caso in cui si rompe un appiglio. Adesso sono diventato tranquillo, allora ero posseduto.
E l’aspetto mentale è cambiato?
Anche le falesie come le vie erano chiodate diversamente, alcune volte erano miste chiodi e spit, o la distanza spesso non era calcolata bene. Abbiamo iniziato a notarlo andando ad Arco dove i tiri erano chiodati meglio, in ottica sportiva, da noi erano chiodati più lunghi. In parte quella cosa si è persa in falesia, sono tutte attrezzate bene e addomesticate, ci fa anche comodo. Ma non lo trovo sbagliato o giusto è diverso e basta. Una volta si facevano anche meno tiri, era tutto più verticale prima e anche l’inclinazione è cambiata.
Quindi ti sei sempre concentrato sia sulle vie più che sui tiri? Alternandoli o tutto insieme?
Tendevo a mischiare in generale, perché poi la preparazione per uno serviva anche per l’altro, in inverno però mi dedicavo più ai tiri. I blocchi ancora non c’erano perché li ho scoperti nel ‘96, prima non li facevo. Il mio focus è sempre stato migliorare nei blocchi e in falesia per poi provare cose più ambiziose in montagna, più alzavo il livello a terra più lo potevo alzare in parete. Ma rispetto alla nuova generazione ho avuto una crescita lentissima, un grado per anno dopo essere arrivato velocemente al 8a, perché alzavo la difficoltà contemporaneamente anche sulle vie.

Joy Division, Qualido. Foto Riky Felderer
Che qualità servono maggiormente per le vie in libera?
Secondo me la libera è sempre stata un concentrato di tutta la mia conoscenza alpinistica. C’è la parte aerobica, logistica, la parte sportiva e poi bisogna essere buoni sia sulla resistenza che sui blocchi soprattutto per le vie di granito, in pratica bisogna essere bravi su tutti i terreni. Anche l’avvicinamento, la tattica e tante altre componenti che devi sapere gestire rendono le big wall complete, non solo il grado in sé. Le big wall di granito secondo me sono molto più difficili da realizzare delle vie di calcare sotto certi punti di vista. Devi essere un bravo sportivo ma soprattutto su granito un bravo boulderista perchè molte volte le vie si risolvono in sequenze di blocco. Devi avere una buona base di forza pura. Ad un certo punto arrivi ad essere sfinito ma devi continuare e per questo devi lavorare tantissimo su tutto.
Come consigli di allenarsi?
Il mio allenamento classico era scalare tanto per migliorare come scalatore, il classico era 20 tiri al sasso Remenno di cui 12 tiri fra 8a e 8b+ poi tornavo a casa e facevo un’ora e mezza di trave come fosse una seduta di blocchi, così per due giorni e poi il terzo calavo perchè ero stanco e avevo poca pelle e quindi facevo una parte aerobica con una corsetta. Tutto dopo avere fatto una base di allenamento di almeno un paio di mesi ovviamente.
Quali difficoltà hai incontrato sulle big wall in libera in Valmasino oltre a quelle tecniche? E lontano da casa invece?
In Valmasino per via della roccia le vie sono più soggette alle condizioni, e anche l’arrampicata è molto incerta e aleatoria oltre che fisica e psicologica. Non riesci mai a scalare completamente rilassato anche se ti senti bene fisicamente, basta un piede che scivola e inizi ad aumentare i tentativi rendendo tutto più difficile, a volte serve anche un po’ di fortuna.
In giro per il mondo invece la differenza grossa è che non conosci la logistica e la parete che rendono tutto più intrigante e completo. E poi il tempo non è infinito e in quel periodo devi riuscire a fare la libera, è uno stimolo in più per dare il tutto per tutto. Ho fatto due o tre salite in cui se fossi caduto non avrei mai più avuto il tempo per rifare il tiro in libera, e spesso non hai molto tempo per provarli.
Che consigli vuoi dare a chi vuole migliorare sulle vie lunghe?
I ragazzi dovrebbero forse scalare di più su roccia, anche fare circuiti sul muro e non solo blocchi. Un buon allenamento è andare in falesia e fare più tiri possibili e se cadi rifarlo al secondo o terzo giri, poi continuare per altri tiri fino a che la tua soglia sale e riesci a gestire la stanchezza. Dopo iniziare a provare delle vie a vista in montagna al tuo limite, se sbagli i tiri rifarli e piano piano migliorare, scegliere vie sia ben protette che da proteggere e alzare l’asticella sempre di più.

Adventure Time, Meridiana del Torrone. Foto Riky Felderer