IN HIMALAYA IN STILE ALPINO

Di Silvestro Franchini, da Stile Alpino #33

Himalaya Alpin Style è il titolo del libro che mi era capitato fra le mani cinque anni fa. Per ogni alpinista recarsi sulla catena montuosa più alta e grande della Terra è un sogno, ed è la meta che anch’io mi ero prefissato. Prendendo spunto da questo libro ho scritto su un bloc notes che ancora conservo: Kishtwar Shivling; e poi la frase di Stephen Venables: “The East Face on the left promises some very hard rock climbing”. Dopo viaggi ed esperienze vissute in montagna, i tempi ci sembrarono maturi per tentare quello che io e mio fratello Tomas non avevamo ancora provato. Il team è compost da noi due, Silvestro e Tomas, da Luca Cornella, guida alpina di San Lorenzo in Banale e da Nicola Binelli, aspirante guida di Pinzolo. Il 15 maggio prendiamo il volo per New Delhi. Caldo opprimente, permessi per le montagne, un viaggio interminabile di 3 giorni in auto con 250 chilometri di dura strada sterrata ci portano a Gulabghart, punto di partenza del trekking che in tre giorni ci porterà al Campo base di Bujan, 3300 metri. Sapevamo di andare verso tanta miseria e rovina, ma non pensavamo di trovarne così tanta…
Dal Campo Base svetta sopra di noi il nostro obiettivo, quello che per tanto tempo ho ammirato sulle poche fotografie che possiedo. È lì davanti ai nostri occhi, e sento emozioni mai provate prima. Il tempo è splendido e già dai primi giorni iniziamo a portare parte del materiale verso la parete. Il nostro avvicinamento è lungo e complesso. Ripidi prati portano al nostro campo avanzato che denominiamo “Ortles”, a 3998 metri. Poi, su ghiacciaio si giunge a 4500 metri, dove un enorme crepaccio terminale – che dobbiamo attrezzare con delle corde fisse – immette in un canale di 500 metri (a 5000 metri) che porta alla base della parete. Quando finalmente tocchiamo la parete tanto desiderata una scossa elettrica scuote il mio corpo. Ha una sola possibilità di salita se la si vuole salire in stile alpino senza portaledge come intendiamo affrontarla noi. È con grande sorpresa che durante il primo tiro mi imbatto in uno spit, traccia del tentativo italiano di Paolo Vitali, Sonia Bramati & co. Si sono spinti per un’altra lunghezza lasciando corde fisse ed altro materiale – che alla fine riporteremo a valle, ripulendo la montagna. Ammiriamo il loro tentativo e speriamo di essere più fortunati. Ci si rende conto di quanto è strapiombante il pilastro solo avvicinandosi! Ogni lunghezza di corda è un’incognita.Dopo circa una settimana abbiamo fissato le nostre quattro corde e siamo pronti per il primo tentativo. È l’1 giugno ed esattamente un anno prima Tomas ed io eravamo in vetta al Nevado Churup. Speriamo tutti che questa data sia di buon auspicio, ma non sarà affatto così: quella si rivelerà la giornata più rischiosa che abbiamo mai passato in montagna. Giornata splendida, siamo in quattro, tre zaini e un saccone da recuperare, materiale da bivacco e cibo per 2/3 giorni. Tutto sembra filare abbastanza liscio, siamo al nono tiro e Tomas sta affrontando una lama off-with strapiombante quando vola per 10 metri fermandosi su un micro-nut e sbattendo con la caviglia più debole; nonostante il dolore tiene duro e porta avanti la cordata per un’altra lunghezza, dove passo avanti io salendo un tiro di misto. Dopo questo tiro la parete è ancora strapiombante; sono le 13:00 e la parete è in ombra da circa mezz’ora. Ora tocca a me cadere, su un friends che espande una lama al punto che mi finisce sulla testa, trovando anche il tempo di tranciare due delle nostre corde. Il morale è a terra, ma l’adrenalina mi fa proseguire per un’altra lunghezza. Anche Luca è stato colpito alla spalla dalla scarica. Ormai è ovvio che dobbiamo ritirarci. In questi momenti ci si domanda perché si va in montagna, perché si entra in contatto con la sua parte più oscura, quella che può far male. Arriviamo alle nostre tende – che abbiamo nominato “Campo Vedetta” – alle 21:00, doloranti e demotivati. Oggi il pilastro si è mostrato in tutti i suoi aspetti: duro, lungo, strapiombante e pericoloso. Nella notte, tra crampi e dolori non pensiamo di avere il coraggio, la forza, e le capacità per poter tentare di nuovo. Ci svegliamo però in una bella mattina di sole. A quella quota, 4900 metri, a perdita d’occhio si vedono montagne di una bellezza entusiasmante. Aprendo la lampo della tenda di Luca e Nicola veniamo investiti da una “nevicata”, dentro è tutto coperto di bianco: si tratta del piumino di Luca che dopo il colpo di ieri si è completamente scaricato di piume. Ci facciamo una risata e ritorna il buonumore. Nicola è deciso a lasciare qui il materiale, e in effetti ci rimangono ancora parecchi giorni prima del nostro rientro. Decisione presa, ritorneremo più agguerriti di prima. Passano alcuni giorni, che serviranno a Tomas per sgonfiare la sua caviglia; noi invece facciamo un giro verso il passo dell’Ummsi-La. Il meteo tuttavia non è più stabile come al nostro arrivo.

Il 5 giugno decidiamo di riprovare e partiamo per la montagna. I ragazzi che ci aiutano e gestiscono il campo base sono carichi come noi. Siamo tutti della stessa età e ormai siamo amici; ci danno l’energia come tifosi prima di un mondiale e ci preparano una cena e una colazione super per la nostra partenza. Unico neo è che Luca accusa ancora dolori alla spalla e non si sente sufficientemente acclimatato, ci lascia quindi partire in tre. Il 6 giugno, finalmente con uno zaino leggero, ci apprestiamo a salire il canale che porta al nostro “campo Vedetta” a 4900 metri. Siamo lì davanti quando una valanga di blocchi di neve si abbatte contro di noi. Evito il primo blocco, ma un secondo mi colpisce sul petto e sulla spalla; anche Nicola viene colpito alla gamba. Tutto diventa nero, faccio fatica a muovermi, la montagna sembra non volere essere salita. Decidiamo di rimandare per l’indomani l’attacco della parete. Nicola e Tomas portano in cima alle nostre corde la ferraglia che , rispetto al primo tentativo, abbiamo ridotto a due serie di friends fino al n°4, a cui aggiungiamo i grossi 5 e 6 indispensabili sulla lama off-with, 15 chiodi da roccia e un chiodo da ghiaccio. Io me ne sto tutto il giorno in tenda a mettermi neve sulla spalla; oggi non avrei potuto scalare e sono preoccupato per l’indomani, ma è incredibile come la motivazione e gli antidolorifici facciano guarire così in fretta. Ci rimane solo una corda singola completamente integra, così scaleremo con quella e con quella tagliata, ora lunga meno di 50 metri, alla quale aggiungiamo uno spezzone della mezza corda danneggiata. L’8 giugno, nonostante il tempo sia nuvoloso fin dal mattino, attacchiamo il pilastro. Siamo in 3 con 2 zaini, il primo di cordata arrampicherà scarico e per risparmiare tempo ed energie non isseremo nessun haulbag. Per non appesantire troppo gli zaini – che già dovranno contenere gli scarponi del primo – riduciamo l’equipaggiamento a meno dell’essenziale: lasciamo in tenda i sacchi a pelo, eliminiamo tutto il possibile, e riduciamo il cibo portando solo una busta di liofilizzato per cena e una per colazione (che ci divideremo in tre). Abbiamo già percorso la prima parte della via e crediamo quindi di procedere veloci. Tomas arrampica attento e sale in libera il nono tiro che l’aveva respinto durante il primo tentativo, io gli do il cambio partendo subito con piccozze e ramponi per il tiro di misto. Il meteo però non è perfetto come la scorsa volta, e dal cielo cade un po’ di neve. È decisamente la peggior giornata da quando siamo arrivati al campo base; arrampicare a mani nude e con le scarpette non è cosa facile. Siamo costretti a scalare alcuni tiri con gli scarponi, facendo tratti in artificiale, e questo rallenta un po’ la progressione. Sono quasi le 19:00 e finora tutte le soste sono state appese nel vuoto, figuriamoci trovare un posto da bivacco! Tomas ha portato a termine un altro tiro duro e sopra di noi c’è un fungo di neve che esce dalla parete. Decidiamo di provare a raggiungerlo, se non altro per fermarci un attimo per riposare e sciogliere un po’ di neve prima della ritirata. Quando lo raggiungo mi si apre il cuore, alle mie spalle una parete strapiombante ripara questa meringa sospesa e, spianando la neve, riesco a ricavare una bella cengia, fisso le corde e invito i miei compagni a raggiungermi. È il ricordo più bello del viaggio! Siamo nel bel mezzo della partita che abbiamo deciso di giocare e ci giocheremo tutte le nostre carte. Siamo consapevoli che non avremo le forze e la motivazione per un altro tentativo, con la lama e poi con la valanga abbiamo già rischiato troppo per questa parete. La vita è bella e non ce la sentiamo di rischiare troppo per scalare un pezzo di roccia. Ora non getteremo quindi la spugna facilmente e decidiamo di prepararci per il bivacco. Ci dividiamo a cucchiaiate la misera razione di cibo a nostra disposizione e alle 21:30 ci infiliamo sotto i teli impermeabili che abbiamo portato per l’occasione. Sotto il sedere di Nic e Tomas ci sono i loro zaini, io ho i miei ramponi a 12 punte che mi isolano dal terreno; le corde sono fissate alle parete. Sia a mezzanotte che alle 2:00, ci svegliamo per preparare una bevanda calda, che ci aiuta a scaldarci. Alle 4:45 vengo svegliato dalla luce. Bene, si vede che ho dormito almeno un po’. Per fortuna in questi giorni c’è abbastanza caldo, -13°C. Facciamo il punto della situazione: il cielo è abbastanza sereno e nonostante il bivacco non proprio confortevole viene in mente che abbiamo anche una busta per colazione da dividerci siamo sicuri che arriveremo in cima.

Alle 6:00 circa il sole ha già riscaldato noi e la parete, così parto per il 18° tiro, 30 metri strapiombanti con fessure svasate e buoni appigli che mi portano con un po’ di artificiale e alcune sezioni in libera fino a un terrazzino. Le lunghezze seguenti non sono da meno. Alla sosta del 20° tiro arrivo molto provato, non ho mai fatto così fatica durante un’arrampicata, ho i crampi alle mani tanto che alcune volte mi si contraggono da sole. Mi dà il cambio Tomas che sale un altro diedro strapiombante; in sosta mi urla di mettermi i ramponi e così, dopo averlo raggiunto, sono pronto a scalare l’ultimo tiro di misto che ci porterà in vetta al pilastro; ci pregustiamo già una bella pausa e tante foto, ma la cima non è altro che una punta di neve quasi verticale che fatichiamo a raggiungere. Inoltre siamo avvolti dalla nebbia e ci affrettiamo quindi a scendere. L’altimetro segna 5780 metri. Non crediamo ancora a quello che abbiamo fatto e siamo concentrati per la lunga discesa che ci porterà alle tende e all’ennesima busta di cibo da dividere in tre. Io e Tom non riusciamo a dormire per il male alle mani, Nicola è più tranquillo ma siamo tutti preoccupati per scendere il canale che ci condurrà al ghiacciaio con tutto l’equipaggiamento. Sveglia alle 4:00, vogliamo assolutamente scendere prima che inizino le scariche che con il caldo degli ultimi giorni si stanno intensificando. Riempiamo il più possibile il saccone da recupero e lo caliamo assieme alle nostre corde e a quelle recuperate dal tentativo di Vitali. Nel frattempo nevica e siamo avvolti dalla nebbia. Tra una piccola valanga e l’altra riusciamo con un po’ di fortuna a far saltare il saccone dall’altra parte del crepaccio terminale, ormai alto più di 20 metri. Sul ghiacciaio stanno salendo Luca e TC (il nostro ufficiale di collegamento); tempismo perfetto nonostante non ci fossimo accordati in nessun modo! Ormai più rilassati trasciniamo corde ed equipaggiamento fino al “Campo Ortles” dove lo lasciamo montato per recuperarlo in un secondo momento. Per festeggiare, il nostro cuoco Pritam invece del riso ci ha preparato bhatura (pane fritto) a volontà, da accompagnare al dal, squisito stufato a base di lenticchie. Peccato che Luca non sia salito con noi, ma l’abbiamo sentito vicino in ogni momento; il successo che abbiamo avuto è senz’altro anche merito suo. Penso di non essere mai stato così contento e soddisfatto in vita mia, abbiamo realizzato un sogno che per me è durato cinque anni. Abbiamo scalato una difficile parete Himalayana, ognuno di noi era alla prima esperienza con questo genere di salite, abbiamo scelto il nostro obbiettivo da soli recandoci in una zona a noi sconosciuta, abbiamo affrontato ogni problema che ci si presentava con entusiasmo e dividendoci i compiti come una vera squadra. Con un po’ di fortuna e basandoci solo sulle nostre esperienze, forze e capacità, abbiamo raggiunto il nostro obiettivo e di questo ne siamo orgogliosi. Grazie montagne di averci fatto salire, grazie Luca, Nicola e Tomas per questa salita e soprattutto per il viaggio indimenticabile che ci ha condotto e ci ha fatto ritornare dalla cima. La nostra vita non è solo arrampicare sulle montagne, le salgo per passare il tempo, ma dopo averle salite o dopo averci provato, tutto ha un sapore più intenso, la vita sembra più bella e io sto meglio.