Dal libro I Guerrieri Venuti dall’est di Bernadette McDonald (Alpine Studio editore)

«A dire il vero, l’alpinismo moderno è inglese, e anche centro-europeo… Ma alla fine, sono stati gli alpinisti sloveni a fare il decisivo passo avanti»
Reinhold Messner

Tomo Česen
Negli ultimi anni della sua vita Nejc Zaplotnik era stato un esempio e un grande amico per i giovani alpinisti di Kranj. Scalatori come Andrej Štremfelj e, successivamente, Tomo Cesen. Nato nel 1959, Tomo cominciò ad arrampicare nel 1972, lo stesso anno in cui Aleš Kunaver e la sua spedizione conquistarono la parete sud del Makalu. Le sue prime avventure furono sulle falesie vicino a casa, a Kranj, ma non passò molto tempo prima che si spostasse nelle Alpi, cimentandosi su vie di ghiaccio e roccia. Alto e magro, bello e scuro di capelli, sembrava più un modello che uno scalatore. Dopo una relazione di quattro anni, Tomo sposò Neda, la sua fidanzata del liceo, alla tenera età di vent’anni. Due anni dopo nacque il loro primo figlio, Aleš.
Atleta di natura, Tomo migliorò rapidamente sotto la guida di Nejc. I due andarono nelle Alpi francesi e scalarono il Pilastro Bonatti al Petit Dru, la parete nord delle Droites e molte altre vie. Nejc possedeva l’esperienza, la capacità e l’intelligenza necessaria per tenere il passo con il suo indomito e talentuoso allievo. Tomo ricordava che Nejc aveva una grande fiducia in se stesso, forse troppa a volte. «Pensavo credesse che non poteva succedergli nulla di male» raccontava Tomo ridendo. «Spesso diceva: “Non ti preoccupare, andrà tutto bene”».
Tomo si guadagnava da vivere facendo lavori di manutenzione in altezza su torri, campanili e scale. Nel suo tempo libero scalava su roccia, spesso da solo. E in inverno, quando i lavori di manutenzione scarseggiavano, perfezionava le sue abilità su neve e ghiaccio sulle pareti nord delle Alpi Giulie e sulle vie classiche intorno a Chamonix.
Tomo fece la sua prima esperienza in alta quota nel 1983, quando scalò la parete nord del Peak Communism, in Pamir. A 7495 metri di altezza, Tomo si convinse – e così anche la commissione delle spedizioni del Club Alpino – di essere pronto per i giganti himalayani. Due anni più tardi, nel 1985, fu invitato a partecipare a una spedizione guidata da Tone Škarja diretta agli 8505 metri dello Yalung Kang, una vetta secondaria del Kangchenjunga, sulla linea di confine tra la regione indiana del Sikkim e il Nepal. Tra i diversi punti di svolta nella carriera di Tomo, lo Yalung Kang fu forse il più importante. Con Tomo via di casa per tre lunghi mesi, Neda tornò dai suoi genitori con il figlio Aleš, di tre anni. Anche perché in quel momento era in attesa del secondo figlio, ma era una donna forte, che mai ostentava paura o mostrava preoccupazione per suo marito.
I membri della spedizione, composta da quindici persone, si avvicinarono alla parete nord con lo stile di una spedizione tradizionale, utilizzando il supporto degli sherpa, bombole d’ossigeno e corde fisse, e allestendo quattro campi in preparazione dell’attacco alla vetta. Tomo fece cordata con Borut Bergant, un alpinista d’alta quota esperto che era stato sull’Everest e sul Lhotse, così come in altre spedizioni himalayane. Tomo imparò molto da Borut, semplici piccoli esercizi di routine che normalmente potevano sembrare poco importanti, ma che a quella quota e in mezzo alla tempesta, potevano fare la differenza tra la vita e la morte.
Tomo fu colpito dal mal di montagna al campo 4, e vomitò tutto quello che aveva nello stomaco. La mattina successiva non stava meglio, si sentiva debole e vacillante.
«Borut, ho bisogno di scendere» disse ansimando e barcollando fuori dalla tenda.
«Starai bene» lo rassicurò Borut. «Una volta che inizierà la scalata, lo stordimento scomparirà, vedrai.»
Tomo si concesse il lusso dell’ossigeno e decise di provare a resistere. Borut aveva ragione. Più si spostavano in alto, meglio Tomo si sentiva. Era come se quell’aria, con la sua purezza, infondesse una straordinaria energia. Quattordici ore più tardi raggiunse la cima.
Alle 5:00 del pomeriggio era ancora chiaro, ma la maggior parte della discesa si sarebbe svolta al buio. Man mano che la notte passava, Tomo si faceva più forte, mentre Borut era sempre più stanco. «Era esausto» raccontò Tomo. «La sua preparazione psicologica non era il massimo… era concentrato solo sull’arrivare in cima, e quando ci arrivò, si rilassò troppo.» L’analisi di Tomo era la pura verità ed era caratteristica di molte salite d’alta quota, dove tutta l’energia e la concentrazione sono focalizzate sulla vetta, lasciando il ritorno nel dimenticatoio.
A circa 8400 metri arrivarono a un risalto di venti metri che si sviluppava su ghiaccio ripido con alcuni passaggi di roccia. Tomo attrezzò la sosta per la discesa in corda doppia e Borut scese per primo. Dopo breve tempo Borut chiamò Tomo: «Tutto bene. Puoi venire.» Tomo dubitava che Borut avesse già raggiunto il fondo del risalto, ma si calò comunque, per poi trovarlo in piedi su un terrazzino, una decina di metri sopra la base del tratto ripido. Ancora appeso alle sue corde, Tomo conficcò un altro chiodo da cui fare una seconda calata.
Mentre Tomo stava battendo il chiodo, Borut cadde nel vuoto. Non un suono. Era semplicemente scomparso.
«Penso sia morto prima di cadere» disse Tomo più tardi.
«Perché quando si cade e si è ancora in vita, si tenta di fare qualcosa per salvarsi. Lui non fece nulla.»
Ora Tomo era solo su quella piccola cengia. Era il suo primo bivacco in alta quota ed era assolutamente fuori programma. Non sapeva cosa fare. Trascorse tutta la notte muovendo braccia e gambe e cercando di rimanere sveglio. Si serrò nei suoi abiti per ripararsi dal freddo e pregò che l’alba giungesse presto. «Ero lì e dovevo sopravvivere» spiegò. «Era così semplice, ma anche così complicato.»
In seguito avrebbe ammesso che quella notte era stato il momento in cui fu più prossimo al confine tra la vita e la morte di tutta la sua carriera alpinistica. Nel frattempo, il campo base li stava tenendo d’occhio.
Videro Borut e Tomo raggiungere la vetta e, in seguito, videro scendere solo uno di loro. In un primo momento non fu chiaro. Franček Knez, che faceva parte della spedizione, si allontanò dal campo base per stare solo. Istintivamente aveva capito che sulla montagna era appena avvenuta una tragedia. Aveva osservato l’evolversi degli eventi, un incidente rovinoso dopo l’altro. In seguito annotò i sentimenti che aveva provato in quel momento: “Posso sentire la forza di questo luogo. Soffia attraverso me, e in un attimo spazza via tutti i sogni dal mio cuore. Un vuoto si apre, profondo e opprimente. Il nulla e la tristezza.”
Com’era possibile valutare una giornata come quella? Il successo o la tragedia? Quale emozione prevale? Piacere? Orgoglio? Dolore? Rabbia? Un brivido attraversò il campo, e mentre aspettavano, biasimo e senso di colpa scavavano solchi profondi nella mente di ognuno.
Due giorni più tardi Tomo arrivò stravolto al campo base, era di nuovo al sicuro. Riusciva a malapena a camminare. Non riusciva a dormire. Non riusciva nemmeno a stare in piedi. Quando il medico della spedizione gli diede un sonnifero, Tomo dormì per venti ore di fila. Si svegliò, mangiò un po’, e dormì per altre quindici ore filate. Sullo Yalung Kang aveva superato i suoi limiti fisici e psicologici.

Un anno dopo Tomo ebbe la sua seconda grande occasione, questa volta nel Karakorum. Ci sono quattro montagne di ottomila metri nella regione del Karakorum, in Pakistan: il K2 di 8611 metri, il Broad Peak di 8051 metri, il Gasherbrum I di 8080 metri, e il Gasherbrum II di 8034 metri. Anche se distanti l’una dall’altra, la loro relativa vicinanza li rende degli obiettivi allettanti per gli alpinisti che vogliono salire più di una montagna in una sola stagione.
Acclimatarsi su uno di questi giganti e poi trasferirsi in un campo base per tentarne un altro è oggigiorno una pratica abbastanza comune. Ma non lo era nel 1986, quando Viki Grošelj, a capo di una spedizione di quattordici membri, arrivò in Pakistan per salire il Broad Peak e il Gasherbrum II, e poi fare addirittura una ricognizione sul K2. Nel gruppo c’erano dei nuovi arrivati. C’era la moglie di Andrej Štremfelj, Marija, un’alpinista energica e di talento. Aveva al suo attivo decine di imponenti salite nelle Alpi Giulie e nelle Alpi francesi e desiderava sperimentare l’ebbrezza dell’alta quota. La sua piccola statura nascondeva una forza formidabile e una ferrea determinazione. Questa fu anche la prima visita al Karakorum di Silvo Karo. Robusto, con le braccia grosse come tronchi, sembrava che Silvo potesse divorare picchi da ottomila metri per colazione. Nato nel 1960 nei pressi di Domžale, era un ragazzo di campagna che odiava i lavori agricoli. Aveva iniziato ad arrampicare nel 1977, introdotto a questo sport dal prete del paese. Come accadde ad altri alpinisti, Silvo ebbe la fortuna di trascorrere la sua leva militare a Bovič, un paese di montagna nella valle dell’Isonzo. I suoi diciotto mesi di servizio obbligatorio li passò correndo, arrampicando e allenandosi. Niente più maiali o vacche! Un duro lavoro che lo ripagò a tal punto che nel giro di pochi anni Silvo aveva accumulato un notevole numero di vie di roccia difficili nello Yosemite, in Colorado, nelle Dolomiti, nelle Alpi e in Patagonia. E ora moriva dalla voglia di salire il Broad Peak. L’altro giovane membro della squadra era Tomo, celebre per la sua velocità in montagna, che spesso lo vedeva costretto a salire da solo lasciando indietro gli altri. Viki era sicuro che il Broad Peak, con la sua vetta ampia fino a un chilometro e mezzo, sarebbe stato un primo obiettivo piuttosto semplice per questa squadra tanto forte. Il 28 luglio, Viki e Bogdan Biščak lasciarono il loro campo alle 5:00 del mattino, battendo la traccia nella neve profonda fino a raggiungere una cresta esposta a 7800 metri, sopra il colle. Solo dopo venti estenuanti ore raggiunsero la vetta, diventando i primi sloveni ad aver salito la montagna. Nei giorni seguenti, altri dieci scalatori raggiunsero la vetta del Broad Peak, tra cui Tomo, Silvo e i coniugi Štremfelj. Questo fu il secondo Ottomila del Karakorum salito da Andrej, mentre Marija ottenne il primato di essere la prima donna slovena ad aver raggiunto quell’altezza. Tomo salì la via da solo in diciannove ore.
Tra i visitatori del loro campo base al Broad Peak ci fu la nota alpinista polacca Wanda Rutkiewicz. Era appena diventata la prima donna a scalare il K2, e anche se era fisicamente ed emotivamente distrutta, avendo perso due dei suoi tre compagni di salita, era decisa ad aggiungere il Broad Peak al suo curriculum. Così si accordò per l’uso delle tende e delle corde degli sloveni. Tomo ricorda come questa sua determinazione creò molto stupore. «Alcuni di noi sarebbero stati pronti a salire con lei e anche a portarle lo zaino» si meravigliò. Ma alla fine, abbandonò il suo piano. La seguente meta per gli sloveni era la piramide corazzata di ghiaccio del Gasherbrum II. Il 2 agosto Bogdan Biščak, Pavle Kozjek, Andrej Štremfelj e Viki si diressero verso il campo base del Gasherbrum II, a due giorni di cammino. Lo raggiunsero in un giorno solo ed essendo ben acclimatati iniziarono a salire alle 6:00 del mattino successivo, portando con sé il minimo indispensabile di cibo e attrezzatura. Cinque ore dopo erano alla base della cresta sud-ovest, a 5900 metri. Montarono due tende e si godettero un lungo riposo, nell’attesa che i pendii instabili sopra di loro si congelassero. Iniziarono a salire la sera verso le 21:00 e continuarono per tutta la notte. E così salirono fino a raggiungere i 7400 metri, dove per la prima volta su quella montagna furono toccati dai raggi del sole. Lì incontrarono un gruppo di alpinisti pakistani che stavano scendendo dalla montagna dopo aver raggiunto la vetta in trentadue giorni. I pakistani rimasero un po’ storditi e allibiti dall’audacia di Viki e della sua squadra, che avevano raggiunto la vetta del Broad Peak il giorno dopo il loro arrivo al campo base.
Mentre il sole iniziava a salire alto nel cielo, il giorno diventò piacevolmente caldo. Poi un po’ troppo caldo e infine quasi insopportabile. «Le ultime poche centinaia di metri furono terribili. Il sole splendeva attraverso una nebbia bianca e mai avrei creduto che fosse possibile percepire un tale calore a 8000 metri» disse Pavle Kozjek. Bogdan e Andrej raggiunsero la vetta per primi, seguiti poche ore dopo da Pavle e da Viki. Dopo una salita così veloce, e con quel sole quasi tropicale, sarebbe stato bello rimanere in cima a godersi la vista. Ma una tempesta era appena scoppiata sul K2 e si stava avvicinando rapidamente al gruppo dei Gasherbrum. Ancora prima di poter iniziare a scendere dalla vetta, apparvero i primi fiocchi di neve. Ora la gara di velocità era da compiersi nella direzione opposta: verso il basso!
La salita al Gasherbrum II, compiuta in modo straordinariamente veloce e in stile alpino, era terminata appena in tempo. Infatti la tempesta che stava arrivando durò per giorni, e scatenò il caos in tutto il Karakorum.
Mentre i ragazzi sloveni scendevano in tutta fretta dal Gasherbrum II, Tomo Cesen si era avvicinato al K2, per poi salirlo in solitaria fino a 7900 metri sullo sperone sud-est. Ufficialmente si trattava di una “ricognizione” della montagna, ma Tomo in seguito aveva ammesso che fu molto tentato di continuare verso l’alto. Aveva spiegato: «Avevamo avuto il permesso di “guardare qualcosa”. Ma tutto sommato “guardare qualcosa” non sono parole poi così chiare e inequivocabili.» In fondo, presentare delle scuse ufficiali alle autorità pakistane sarebbe stato molto più facile che attendere un’autorizzazione vera e propria.
Così Tomo aveva pensato di continuare l’ascensione. Ma dopo aver raggiunto lo Sperone Abruzzi – in sole diciassette ore – alzò lo sguardo verso un cielo livido e minaccioso e vide che una violenta tempesta stava per abbattersi sul K2.
A quel punto scese in tutta fretta dalla montagna. Altri che in quel momento erano sul K2 non furono così fortunati. In una serie terrificante di eventi, tredici alpinisti provenienti da Stati Uniti, Inghilterra, Polonia, Italia, Francia, Pakistan e Austria morirono sulla montagna durante quella stessa stagione. Molti di loro avevano trascorso troppo tempo in alta quota. Quel giorno Tomo sopravvisse al K2 grazie alla sua velocità.
Un anno dopo, nel 1987, Tomo tornò in Nepal come membro di una spedizione composta da tredici superstar dell’alpinismo internazionale. L’obbiettivo erano gli 8383 metri del Lhotse Shar – una delle tre vette del Lhotse. Non riuscirono nel loro intento, ma per Tomo la spedizione fu un’altra importante esperienza che incrementò la sua formazione. Dopo diverse settimane sulla parete, lui e Andrej Štremfelj salirono dal campo base fino a 7500 metri, in un’unica corsa di dodici ore. «Questo per me era il segno che si poteva salire in uno stile diverso» disse. «Certo, bisognava essere in forma» aggiunse.
Tomo aveva capito che trascorrendo meno tempo possibile sulla parete, era possibile ridurre significativamente i rischi.
Era ormai certo che, una volta acclimatati, era molto meglio scalare senza fermarsi e senza dormire, piuttosto che avanzare sulla montagna lentamente, dormendo nei campi lungo il percorso. Questo sarebbe diventato il suo stile.

Slavko Svetičič
Gli anni novanta erano stati anni crudeli per gli alpinisti sloveni: Nejc, Šrauf e Vanja erano morti. E al momento della morte di Vanja, nel 1996, la carneficina era tutt’altro che finita.
Nato nel 1958, Slavko Svetičič era un uomo dall’aspetto serio, con una chioma di capelli castani, un viso asciutto e un naso sinuoso, addolcito da un sorriso gentile. Si muoveva con una sorta di grazia disinteressata, come un ballerino.
C’era qualcosa in lui, qualcosa che era sprezzante sia di se stesso sia di ciò che lo circondava. Il suo essere introverso in qualche modo si trovava in contraddizione con le sue performance da fuoriclasse dell’alpinismo, in particolare per quanto riguardava le sue ascensioni in solitaria. Era anche famoso per la sua capacità di sopportare una lunga festa notturna per poi trovarsi pronto alle prime ore del mattino, diretto al suo obiettivo. La sua lista di salite è da capogiro: oltre milleduecento salite, di cui quattrocentosessanta prime ascensioni. Slavko si spingeva al suo limite tecnico anche quando scalava da solo. La sua ripetizione invernale della Direttissima sull’Eiger, insieme a molte altre solitarie nelle Alpi, nelle Ande, nelle Alpi Giulie e in Nuova Zelanda (e più in particolare i suoi tentativi solitari alla parete sud e alla parete ovest dell’Annapurna) lo avevano portato a godere di un grande rispetto tra i suoi coetanei.
Nonostante la guerra in Slovenia e in altre parti della Jugoslavia, Slavko partì per l’Annapurna nel 1991. Darko Berljak avrebbe dovuto condurre questa spedizione di due alpinisti, ma il propagarsi di un conflitto armato su gran parte del territorio croato gli impedì di partecipare, e così Slavko partì da solo. Salì in solitaria una nuova via sulla parete ovest dell’Annapurna, alta 2600 metri, alla fine di ottobre, raggiungendo un punto sulla cresta a meno di trecento metri – di terreno abbastanza semplice – dalla vetta. Venti fortissimi e le dita congelate lo costrinsero a scendere lungo il versante nord, dove si sviluppava la via normale. Raggiunse il campo base il 3 novembre. La sua permanenza in parete era stata così lunga che al campo base pensarono fosse morto sulla montagna, e avevano già smantellato tutto, ripartendo per il fondovalle. Slavko così rientrò da solo.
Due anni dopo, era tornato di nuovo lì con Franček e Marija Knez, sperando di completare il percorso che i due campioni francesi, Pierre Béghin e Jean-Christophe Lafaille, avevano tentato sulla parete sud. Quando Franček si ammalò, Slavko decise di provare da solo. Iniziò la scalata il 3 ottobre, ma dopo un bivacco a 6800 metri, scese a causa del forte pericolo di valanghe. L’8 ottobre ci riprovò di nuovo, ma fu scaraventato a valle per un centinaio di metri da una slavina. Quella via non è stata scalata fino al 2013, quando l’alpinista svizzero Ueli Steck la salì in sole in ventotto ore, stabilendo un nuovo record per l’alpinismo in alta quota e portando a termine il lavoro che Slavko aveva tentato vent’anni prima.
Nel 1995 Slavko concentrò i suoi sforzi su un’altra salita solitaria, quella della parete ovest del Gasherbrum IV. La quarta montagna più alta del gruppo dei Gasherbrum, che comprende ben sei cime, è anche la più ardita. Slavko era uno dei pochi alpinisti al mondo in grado di salire quella parete. La prima ascensione della montagna avvenne nel 1958, da parte degli italiani Walter Bonatti e Carlo Mauri, impresa che folgorò la comunità alpinistica internazionale.
Stesso esito ebbe la prima salita della parete ovest: l’austriaco Robert Schauer e l’alpinista polacco Voytek Kurtyka scalarono la “parete lucente” nel 1985, sbalordendo il mondo dell’alpinismo. Dopo sei giorni di scalata complessa, rimasero bloccati per tre giorni vicino alla vetta a causa di una tempesta di neve. Erano senza cibo, senza gas e fuori dal tempo e dallo spazio, fino a quando la tempesta finalmente si placò, permettendogli di uscire dalla parete e scendere lungo una cresta ignota. Anche se non raggiunsero la vetta, la loro ascensione rimane pur sempre una delle più emblematiche salite della storia himalayana.
Ma la parete ovest del Gasherbrum IV è un pezzo di roccia enorme e Slavko era convinto dell’esistenza di almeno un’altra interessante via di salita. Aveva messo gli occhi sulla parte sinistra della parete e arrivò a maggio con altri tre alpinisti, nonostante la sua intenzione fosse fin da subito quella di salire da solo. Allestirono il campo base in prossimità di una spedizione coreana col medesimo obiettivo. Slavko si acclimatò per due settimane prima di iniziare la sua scalata il 14 giugno. Nejc aveva conosciuto il richiamo di una salita solitaria e ne descrisse i momenti che la precedono, il nervosismo e la paura che aveva provato alla base della parete del Triglav: Questa è probabilmente la prova più dura da arrampicatore solitario che ho intrapreso fino a ora, e più durerà la sera e più la mia spensierata felicità svanirà. Mi siedo tranquillamente in un angolo, con la pipa in bocca, ascolto un gruppo di bulgari che cantano e suonano la chitarra. Una malinconia strana mi pervade… Sono in attesa, in attesa di qualcosa di grande e bello che mi sollevi il morale, ma allo stesso tempo questa paura animale, quest’istinto di sopravvivenza si risveglia in me… Per me, l’arrampicata non è solo uno sport. Per me, l’arrampicata è la vita… arrampicare da solo è la più alta forma di alpinismo. Oltrepassare il confine tra la vita e la morte mostra cosa significa essere veramente vivi.

Slavko stava facendo dei buoni progressi sulla parete, mantenendo un regolare contatto radio con la base. I coreani lo stavano osservavano con il loro telescopio. Bivaccò a 6300 metri il 16 giugno, e il giorno dopo, a 7100 metri, comunicò via radio che la maggior parte dell’arrampicata più difficile era dietro di lui. Doveva solo trovare un modo per accedere al ripido pendio di neve che lo avrebbe portato alla cresta sommitale.
Però, proprio come era accaduto a Robert Schauer e a Voytek Kurtyka dieci anni prima, il tempo cambiò. Una brutta tempesta colpì la parete, cancellando ogni possibile riferimento. Anche se uscì dal campo visivo, Slavko riuscì comunque a mantenere il contatto radio. Poi qualcosa andò storto. Il 20 giugno dal campo base chiamarono via radio Slavko per spronarlo furiosamente a scendere. Non ci fu risposta. Per i successivi tre giorni non ci fu alcun segno di Slavko, mentre la tempesta continuava a infuriare.
I coreani, il 23 giugno, cercarono di contattarlo ancora via radio, ma sulla parete regnava il silenzio. Il 25 giugno un elicottero sponsorizzato da un’emittente radio coreana si alzò dal campo base, nella speranza di trovare Slavko sulla parete, ma il forte vento li costrinse a desistere. Tornò il giorno successivo, ma non poté salire più in alto di seimila metri, svolazzando avanti e indietro, alla ricerca di qualche segno di vita. Non si vedeva niente.
Dopo dieci giorni di attesa di un miracolo, i membri delle due spedizioni tennero una cerimonia commemorativa per Slavko al campo base.
Per due anni non si seppe nulla di Slavko, né sulla sua posizione, né su ciò che era realmente accaduto. La sua morte è rimasta un mistero. Poi nel 1998 un’altra squadra di coreani arrivò alla base della parete ovest e, sulla via di ritorno dalla vetta, ritrovarono il corpo di Slavko a 7100 metri, in posizione di riposo sotto un canalone. Yu Hak-jae ha raccontato che Slavko era sdraiato, di fronte alla montagna, vicino al suo zaino e a una corda di trenta metri, del diametro di sette millimetri. La sua imbracatura non era attaccata alla corda, ma Yoo ha ipotizzato che Slavko forse stava per utilizzarla per scendere, dal momento che la corda era fissata in alto sulla parete. Il suo abbigliamento e il corpo erano intatti. Nessun segno di una caduta violenta. Era come se si fosse fermato a riposare e non si fosse mai più risvegliato.

Tomaž Humar
Dopo l’incidente nel suo seminterrato, la carriera alpinistica di Tomaž Humar sembrava conclusa. Costretto a stare seduto su una sedia a rotelle, che battezzò la sua “Ferrari rossa”, e sul divano del suo soggiorno, Tomaž ebbe un sacco di tempo per riflettere. Posò di nuovo gli occhi sul suo libro preferito – Pot – innumerevoli volte, e anche se questo in fondo non avrebbe risolto i suoi problemi, la scrittura di Nejc gli dava conforto.
Ma non fu solo ed esclusivamente la lettura di Pot a confortarlo, perché Tomaž non era ancora pronto a rinunciare alla sua passione. Andò in Germania per un intervento chirurgico complicato alla gamba e al tallone, e sopportò mesi e mesi di fisioterapia. Passò gradualmente dalla sedia a rotelle alla cyclette, e poi a delle stampelle traballanti. E infine ricominciò ad arrampicare, salendo sulle falesie locali di calcare bianco e perfetto, per poi inciampare lungo il sentiero, durante una discesa. Come Nejc, anche Tomaž funzionava meglio su un terreno verticale piuttosto che sulle superfici orizzontali.
Da Pot: “Tutto ciò che faccio è mettermi un casco, appendere un paio di fettucce e dei chiodi alla mia imbracatura, e fin dal primo contatto con la parete mi sento completamente a mio agio. Mi sento come se stessi ballando un valzer soave, solo io e la mia ragazza, senza spettatori, lontano dalla calca di una pista da ballo affollata. C’è musica, ma non so da dove provenga.”
L’amore di Tomaž per la montagna non era rivolto alle pareti di roccia e alle falesie, ma all’alta montagna. Nel 2002 entrò a far parte di una spedizione russa sullo Shisha Pangma, e la placca d’acciaio che rinforzava la sua gamba più corta funzionò a dovere. Subito dopo salì una nuova via sulla parete sud dell’Aconcagua in Argentina, la montagna più alta del Sud America, e poi tentò di aprire una via nuova in solitaria sulla parete est dello Jannu, scalando infine una variante sulla parete nord-est del Cholatse, in Nepal. I suoi amici avevano notato in lui un cambiamento di stile.
Il Dhaulagiri era stata un’ascensione “pubblica” dall’inizio alla fine. Le sue salite dopo l’infortunio sembravano invece più intime. Come aveva sottolineato: «Ora decido io quando avere il supporto dai media. Sono diventato un po’ più opportunista». Tomaž aveva un grande progetto in mente ma, almeno inizialmente, aveva deciso di mettere in stand by il suo “interruttore”. La vita gli stravolse i piani: il suo matrimonio andò a rotoli! In più il suo sponsor si ritirò. Fu solo allora che Tomaž passò a una formula ben collaudata: la stretta collaborazione con i media. Con gli sponsor smossi dal rumore provocato dai giornali e dalla televisione, sarebbe stato in grado di pagare le bollette e continuare con il suo sogno di una nuova via in solitaria sulla parete Rupal del Nanga Parbat: una parete di 4500 metri di roccia e ghiaccio sulla seconda montagna più alta del Pakistan.
Arrivò alla base della montagna nel luglio del 2005 e si acclimatò lungo la via Messner, in mezzo alla tempesta. Poi le bufere si intensificarono, e fu costretto ad aspettare al campo base, preoccupato e impaziente. Le sue comunicazioni quotidiane coi media non fornivano loro niente di interessante, tranne il cattivo tempo. La sua ansia aumentò con la notizia che un altro permesso per quella parete era stato rilasciato a un’altra spedizione; Marko Prezelj e i suoi consueti compagni di scalata, Steve House e Vince Anderson, sarebbero arrivati da un giorno all’altro. Infine, fu prevista una finestra di tre giorni di meteo “meno cattivo”. Ma nel frattempo la montagna era stata coperta di neve dai molti giorni di tempesta. Tonnellate e tonnellate di neve instabile. Ci sarebbero volute diverse giornate di sole per cambiarne la consistenza. Tuttavia Tomaž non aveva il tempo, o la pazienza, di aspettare più a lungo, e così iniziò ugualmente la scalata. Per i primi due giorni fece buoni progressi, ma poi si fermò a circa 6350 metri, su un ripido cono ghiacciato che sprofondava in una spessa lastra di neve instabile. Poi il maltempo lo inghiottì. Scavò un buco su di una piccola cresta e, accovacciato al suo interno, attese che la tempesta finisse. Seguirono giorni e giorni di neve, pioggia e continue valanghe. Non riusciva a spostarsi verso l’alto. Non riusciva a traversare. E di certo non riusciva neanche a scendere! Dopo quattro giorni passati in una truna nella neve, senza più cibo né combustibile per il fornelletto, fu costretto all’impensabile: una chiamata di soccorso.
Ogni alpinista serio deve ammettere che richiedere un salvataggio è molto difficile, vergognoso e disonorevole. Molti lo hanno fatto e devono la loro vita ai loro soccorritori. Ma questa è davvero l’ultimissima risorsa. Quindi, la richiesta di un salvataggio a oltre seimila metri sulla parete Rupal del Nanga Parbat, con il continuo monitoraggio del suo sito web da parte del mondo intero, era stata una scelta estremamente sofferta. Gli alpinisti di tutto il mondo derisero Tomaž, e questo “circo” che si era creato andò a beneficio solo dei media.
Il salvataggio fu epico. Coordinato direttamente dalla Slovenia dal vecchio amico di Tomaž, Viki Grošelj, lo sforzo durò ben sei giorni e coinvolse professionisti del soccorso alpino provenienti dalla Svizzera e dal Pakistan, nonché i presidenti della Slovenia e del Pakistan. Dopo un paio di false partenze e una crescente pressione da parte del presidente Musharraf, due piloti d’elicottero pakistani, Rashid Ullah Baig e Khalid Amir Rana, riuscirono a eseguire il soccorso a un’altitudine mai tentata prima di allora. Fecero l’impossibile e furono salutati come eroi per la loro audace missione. Tomaž, d’altra parte, fu diffamato dai giornalisti e dai suoi colleghi. Aveva rotto il codice d’onore in uso nell’alpinismo. Secondo loro, morire sarebbe stata la cosa più onorevole da fare. I cittadini sloveni, invece, reagirono in modo diverso, avendo seguito tutti i giorni la sua ascensione al telegiornale della sera. Quando fu strappato dalla parete Rupal, tirarono il fiato. Molti sloveni lo spinsero addirittura a correre per la presidenza. Poche settimane dopo il salvataggio, Steve House e Vince Anderson scalarono la parete Rupal in uno stile impeccabile. Quando Steve venne in Slovenia, poco dopo la salita, fu braccato dai giornalisti e alla fine accettò di rilasciare un’intervista. Tomaž si ritirò, evitando i media e ignorando i suoi detrattori. Era un animale ferito. La sua umiliazione era completa. Ancora una volta, si rifugiò in Pot: Le persone sono cresciute con la paura nei miei confronti. Erano sconvolti e confusi quando mi erano vicini, perché non sapevano come classificarmi, in che gruppo inserirmi, e con quali toni descrivermi. Non appartenevo più a niente, e stavo diventando sempre più solo. Alcune persone hanno cominciato a seguirmi; altre a evitarmi. Ma quelli che mi erano stati vicini, contenti di vedere il riflesso delle loro anime nei miei occhi, erano ben pochi… Non voglio nient’altro che prendere il mio zaino, issarlo sulle spalle e tornare a casa, il luogo in cui mi sento al sicuro e accettato… Tuttavia, mi rifiuto di farlo, se non altro per rimanere fedele a me stesso e al mio cammino. Anche Tomaž cercò di rimanere fedele al suo modo di essere, ma questo si dimostrò tragicamente fragile. La sua esistenza tornò a essere apparentemente normale, ma sotto la sua corazza Tomaž era profondamente turbato. Il suo matrimonio era finito. Era come una stella fiammeggiante che si era semplicemente spenta. Aveva perso il rispetto dei suoi compagni e di conseguenza aveva perso fiducia in loro. Diventò sempre più sospettoso. «Queste persone stanno cercando di divorare la mia anima» aveva detto.
La sua diffidenza negli alpinisti, nei medici e, infine, anche nei suoi amici più stretti si trasformò in paranoia. Stipe ha ricordato con tristezza che, in quegli ultimi anni, Tomaž era molto solo. «Probabilmente ero il suo ultimo amico» ha detto. Come scrisse Nejc in Pot: Non ho più fiducia in nessuno dei miei compagni di arrampicata, né ho fiducia in me stesso. Nulla è più andato bene come prima. Ho perso quella feroce passione nel mio cuore che mi portava ad arrampicare. Le rocce sembravano distanti e ostili. Mi sono sforzato di riemergere, e ho scalato un paio di belle vie, ma con difficoltà e senza la grazia o l’entusiasmo di un tempo… Oggi mi rendo conto di cosa si trattava: paura. La paura della morte. La paura del sangue… Una malinconia strana mi aveva travolto… la mia vita mi stava passando tra le mani come sabbia in una clessidra. Tutta quella forza vitale scivolava inesorabilmente verso il basso attraverso il collo della clessidra, fino a perdersi nel cumulo di sabbia sottostante… Mi ero perdutamente innamorato e mi sono fatto consumare dalla paura di non essere in grado di vivere con la donna che amavo. Mi nascosi dietro l’euforia che, crescendo, era diventata sarcasmo. Bruciavo di uno strano fuoco, non della calda fiamma della luce, ma delle fiamme distruttive di un incendio doloso. Ho cercato di spegnerlo con l’alcol, ma fu come gettare benzina sul fuoco. E le montagne non brillavano più. Non mi davano più né forza né energia. Sono diventate scure, come la tempesta che si stava spietatamente preparando dentro di me. Tomaž continuò ad arrampicare, ma coi media debitamente lontani.
Alla fine dell’ottobre 2007, salì in solitaria una nuova via sulla parete Sud dell’Annapurna I Orientale, raggiungendo la vetta. Ci furono altre salite e altre vette, non pubblicizzate e da lui nemmeno raccontate. Si stava preparando per qualcosa di grande, qualcosa che avrebbe assicurato il suo posto nella storia. Parte della sua preparazione per questa nuova avventura era la parete sud del Langtang Lirung, una montagna alta 7227 metri nel nord del Nepal, ai primi di novembre 2009.
Da qualche parte su quella parete, però, qualcosa andò storto. Aveva fatto un paio di telefonate dal suo cellulare satellitare, in primo luogo alla sua ragazza, per dirle addio, e poi al suo cuoco nepalese al campo base. «Io sono alla fine» gli disse. Un tentativo di soccorso era stato lanciato dall’asso del soccorso alpino svizzero Bruno Jelk, ma il suo corpo massacrato e senza vita non fu trovato se non cinque giorni dopo la prima chiamata.
Quest’uomo complesso, determinato e straziato da conflitti interni, si era rivoltato contro se stesso quando, anni prima, gli era stato chiesto se corteggiava la morte. «Sai quanto amo i miei figli» aveva urlato. «Voglio essere un nonno.»
Tutti avrebbero voluto che ciò fosse vero, in particolare la sua famiglia. Ma, come altri prima di lui – Nejc, Šrauf, Janez e Slavko – anche Tomaž si era avvicinato troppo al suo limite. E, infine, lo aveva oltrepassato.
Tomaž faceva parte di quel ristretto gruppo di alpinisti che preferisce arrampicare da solo. Questi considerano la velocità della progressione solitaria come la loro miglior sicurezza. Tomo Česen era esterrefatto dal numero di settimane richieste dagli scalatori jugoslavi nel 1981 per superare la parete sud del Lhotse, rimanendo così a lungo esposti a un estremo pericolo. Così come era un vantaggio la velocità, Tomo credeva che arrampicare in solitaria aiutava anche a raggiungere un altissimo livello di concentrazione. «Se la concentrazione è molto alta, puoi ottenere di più dal tuo corpo… E sono sicuro che quasi tutti possono fare molto di più di quello che pensano.» Tomo fa riferimento a Messner sul Nanga Parbat e a Ueli Steck sull’Annapurna come esempi di ciò che il corpo umano può arrivare a fare. «Ma devi esporti a situazioni in cui ti ritrovi costretto…» ha spiegato, «e solo allora ti rendi conto che puoi fare molto di più.»
L’allenamento e l’esperienza erano stati fondamentali per le ascensioni di Tomo. Anche per questo era stato privilegiato dal pieno sostegno del suo Club Alpino, sebbene lui stesso insisteva sul fatto che alcuni dei suoi contemporanei arrampicassero meglio di lui. Era diventato un alpinista professionista. Si allenava tutti i giorni, per tutto il giorno. E alla fine, veramente pochi raggiunsero una preparazione e una forma fisica simile alla sua.
Sia Tomo Česen che Slavko Svetičič erano principalmente dei solitari. C’erano delle similitudini tra di loro, ma il loro approccio era sostanzialmente diverso. Tomo utilizzava un approccio razionale, programmato nei minimi dettagli e si preparava alle sue salite come un atleta, mentre Slavko era molto più impulsivo. Le sue improvvise ispirazioni spesso lo avevano spinto a salire da solo ben oltre le sue capacità, mentre Tomo scalava da solo ben al di sotto delle sue.
Anche Tomaž era uno specialista delle ascensioni solitarie, credeva di poter comunicare con la montagna su cui saliva, creando una sorta d’irreale collaborazione. Questa convinzione certamente lo aveva aiutato sulla parete sud del Dhaulagiri, nella sua discesa dal Nuptse e nella scalata solitaria al Bobaye nel 1996. Ma pare che non gli portò sufficiente conforto sulla parete sud del Langtang Lirung. Alla fine, quel giorno rimase da solo. Come ha detto la superstar svizzera – ed esperto scalatore solitario – Ueli Steck: “Se a un certo punto non la smetti con l’arrampicata solitaria… questa ti ucciderà. Non c’è altro da aggiungere”. E nel caso di Slavko Sveticic, così come di Tomaž, la sua analisi non poteva essere più corretta. Tra le milleduecento salite di Slavko, molte furono solitarie: vie difficili nelle Alpi francesi, ascensioni ancora più ardue di quelle nelle Alpi Giulie, vie in artificiale, in arrampicata libera, ascensioni invernali. Aveva superato in solitaria pareti in Sud America e in Nuova Zelanda, poi era tornato sulle Dolomiti per solitarie ancora più complesse. Slavko scalava veloce. Ma sul Gasherbrum IV, la velocità non aveva potuto salvarlo. Le vite degli alpinisti sono come meteore, così intense e così pericolosamente vissute, ed è difficile conciliare la loro attitudine al rischio con il loro desiderio di invecchiare. Come aveva scritto Rebecca West nel suo libro del 1941 sui suoi viaggi jugoslavi – Black Lamb and Grey Falcon: “Solo una parte di noi è sana di mente, ama i piaceri della vita e passare i giorni quanto più felicemente possibile, solo una parte di noi vuole vivere fino a novant’anni e morire in pace, nella casa che ci si è costruiti, protetti da coloro che verranno dopo di noi. L’altra metà di noi sembra essere impazzita. Preferisce la scomodità al piacere, ama il dolore e la disperazione della notte oscura, e vuole morire in una catastrofe piuttosto che tornare alla vita per ricominciare da capo, non lasciando nulla nella nostra casa, se non una misteriosa eredità”.
Morire su una montagna – da soli – è una cosa orribile; si provano una solitudine e una disperazione inimmaginabile. Ma la morte di un amico può essere anche peggio. Stipe era rimasto fedele a Tomaž fino alla fine. Forse a causa della sua esperienza di tragedie in montagna: Ang Phu nel 1979 sull’Everest, ancora una volta sull’Everest nel 1989, e nel 1993 sul K2, che fu particolarmente straziante per Stipe. Quella volta, mentre era ancora al campo 4 dopo aver raggiunto la vetta della montagna, Stipe aveva notato che il suo compagno, Boštjan Kekec, era nella tenda in preda a sofferenze, appariva stranamente vecchio e aveva la schiuma alla bocca. «Ho pensato: “Oh mio Dio, forse ha il mal di montagna”» ricorda Stipe. Tentò di svegliare Boštjan e di aiutarlo a scendere, ma lui non rispondeva, oscillando tra coscienza e incoscienza. Per tutta la notte, Stipe e altri due compagni tentarono di rianimare Boštjan e di prepararlo per la discesa del giorno successivo.
Il mattino seguente lo avevano tirarono fuori dalla tenda, per poi avvolgerlo in un sacco a pelo e legarlo alla corda. Lo trascinarono per trecento metri, ma non sarebbero riusciti a reggere anche un solo metro in più. Stipe allora chiamò il campo base, per chiedere consigli. Il campo base aveva risposto che lui, Stipe, sapeva già cosa doveva fare.
«Ma io non lo sapevo! Dovevo decidere… Rimanere lì con lui e morire anch’io, oppure abbandonarlo al suo destino e continuare a vivere?» E lì ebbe inizio il più difficile dubbio della sua vita. Si era dato fino alle 13:00 per prendere una decisione.
Alle 13:00 iniziarono a scendere. Boštjan era immobile sul pendio. «Ma quando mi voltai mi era sembrato che si muovesse un po’. Ero in uno stato mentale terribile.» Tornarono indietro e cercarono di nuovo di muovere Boštjan, lottando per un’ora, ma con pochi progressi. Poi osservarono attentamente Boštjan: era morto. «In quel momento lui ci salvò la vita» ha ricordato Stipe con una voce senza emozioni, ma con gli occhi persi nei ricordi.
Boštjan fu la ventinovesima vittima del K2 e un altro della lunga lista di alpinisti sloveni che restarono sulle montagne per sempre; alpinisti che avevano perso di vista il fatto che l’arrampicata è essenzialmente un’attività legata alla terra; alpinisti che avevano volato troppo in alto. Come scrisse l’alpinista francese Lionel Terray: “Continuando a vivere ai confini del cielo, a volte ci si dimentica di provenire dalla terra”.