Una sfida lunga tredici anni

di Federico Magni

Quella lavagna di ottocento metri era diventata quasi un’ossessione per i Maglioni rossi. La prima volta che Casimiro Ferrari, con Mariolino Conti, ci mise gli occhi sopra era il 1993 e sono dovuti passare altri quindici anni e che altre generazioni di alpinisti dei Ragni di Lecco si facessero avanti per regalare alla memoria del grande Miro quel sogno. La parete Nord Ovest del Cerro Piergiorgio è una big wall di granito strapiombante alta quasi novecento metri, aperta all’immensa distesa ghiacciata dello Hielo Continental e una delle prime a ricevere le tempeste che arrivano da ovest. Casimiro voleva passare proprio nel cure di quella muraglia.

Ci furono i primi tentativi. Nel 1995 insieme al Miro c’era anche Giuseppe “Det” Alippi. In cordata si aggiunse anche Mauro Girardi. Riuscirono ad attrezzare 350 metri di parete verticale con una chiodatura difficile e laboriosa. Il Det provò a usare anche i cliffhanger. Poi l’uscita di un friend gli fece vare un lungo volo. Riuscirono a raggiungere un punto più o meno a 150 metri al sistema di diedri che sembrava portare in vetta. Ma anche in quell’occasione il vento e la neve non diedero loro tregua. In quattro settimane riuscirono ad arrampicare cinque o sei giorni. Dieci anni dopo che il progetto aveva preso forma, ai piedi della grande parete ritornò ancora una volta Mariolino Conti (che fece parte della prima spedizione), con lui anche Marco Vago, Alberto Marazzi, Daniele Bernasconi, Matteo Piccardi e Serafino Ripamonti. Ma fu negli inverni del 2007 e del 2008 che il grande balzo verso l’alto sembrò concretizzarsi attraverso mille difficoltà e una gran dose di adrenalina. Le premesse furono messe nell’inverno del 2007 quando la spedizione dei Maglioni rossi partì da Lecco guidata dall’allora presidente Alberto Pirovano, con Mario Conti, Daniele Bianchi, Cristian Brenna, Giovanni Ongaro, Daniele Bernasconi, Daniele Barlascina e il Valdostano Hervé Barmasse. Simone Pedeferri e Adriano Selva quella volta puntavano invece al pilastro Ovest dell’Aguja Mermoz.

Casimiro e il Det

Ai primi di febbraio sembrava tutto pronto per un attacco decisivo. «Sfruttando le giornate passate, non di tempo eccezionale, ma buono per i lavori di trasporto e preparazione, siamo riusciti a trasportare tutto alle basi delle pareti. Oggi è pausa. Il meteo non dà possibilità di iniziare la scalata e così il gruppetto del Piergiorgio è sceso a El Chalten per mangiare un po’ di carne», scriveva Pirovano.

Alla fine di febbraio il sogno sembrava ancora più a portata di mano. Giovanni Ongaro, Matteo Bernasconi, Hervé Barmasse e Mario Conti si trovarono finalmente all’ingresso del camino che solca la parte alta della parete.

Una sfida di altri tempi, una lotta con le difficoltà di una salita che richiede le stessa preparazione di una big wall, messa lì però a subire il gelo delle correnti patagoniche. Mogli, fidanzate e famiglie dovettero attendere ancora per il rientro a casa dei lecchesi che era fissato per il 3 marzo. «Niente da fare, toglieteci il volo, noi rimaniamo in parete», fecero sapere i maglioni rossi, dopo una veloce discesa dal «nido d’aquila», quel posto infame che da oltre un mese era diventato la loro casa. Tornare indietro era diventato ormai impossibile dopo che si erano fatti coinvolgere in quel gioco perverso con la parete del Piergiorgio, una delle più belle e compatte del mondo. Nessuno aveva mai guardato all’interno di quel camino e ora si trovava pochi metri sopra le loro teste oltre la metà della parete e che taglia verso sinistra. “Se ci saranno le condizioni il passaggio potrà essere superato sul misto, altrimenti bisognerà aggirarlo sul bordo. Un passaggio, che in questo caso, andrà affrontato interamente su roccia”, raccontavano.

Il campo sotto al cerro Piergiorgio

«Arrivati al camino le difficoltà dovrebbero essere superate – faceva sapere Alberto Pirovano, che nel frattempo era rientrato dalla spedizioni -. I ragazzi stanno dimostrando una forza di volontà incredibile, hanno fatto gli «equilibristi» pur di arrivare dove si trovano ora, hanno affrontato gran parte dei passaggi più duri con gli scarponi. Per questo credo che il loro rapporto con quella parete faccia parte ormai di una sfida d’altri tempi». Che ostinazione.

Sembrava tutto fatto, ma ancora una volta il meteo della Patagonia decise per tutti e gli alpinisti lecchesi ormai convinti di riuscire a tornare in alto furono costretti a rinunciare e ritornare invece ancora una volta a casa a mani vuote. In parete rimase però buona parte del materiale. E l’inverno successivo la famiglia Rocca continuò a sostenere il progetto.

Ancora una volta da Lecco partì una delegazione di alpinisti guidata da Mariolino Conti. Era il 10 gennaio del 2007. I maglioni rossi volevano riprovarci, ancora più determinati, contando sulle energie e l’esperienza di Giovanni Ongaro, di Hervé Barmasse e Cristian Brenna. A supportare il gruppo c’era ancora una volta Mariolino Conti che fece parte anche della prima spedizione al fianco di Casimiro Ferrari che per primo, più di dieci anni prima, mise gli occhi sull’immensa parete. Quella volta non poté partecipare invece Matteo Bernasconi.

Giovanni Ongaro in parete

Ai primi di febbraio sembrava filare tutto liscio ma la grande muraglia sembrò voler respingere ancora una volta l’attacco decisivo. Questa volta con un brutto incidente che poteva costare caro. Una cornice di ghiaccio crollò improvvisamente mentre gli alpinisti si preparavano al bivacco in parete e investì Giovanni Ongaro che fortunatamente fu colpito ella mani provocandogli diverse fratture. I concitati momenti successivi all’incidente furono la cronaca di un soccorso d’altri tempi con Giovanni Ongaro aiutato dai compagni di cordata Cristian Brenna e Hervé Barmasse nella discesa dalla montagna. I due alpinisti scampati al crollo calarono il compagno per 600 metri fino alla base della parete. «Gio come al solito è stato coraggiosissimo – commentò Barmasse – senza mai lamentarsi del dolore, sballottato sulla parete senza potersi mai aiutare». Raggiunto da Mariolino Conti il gruppo riuscì a raggiungere prima Fraile e poi El Chalten: una camminata di 25 chilometri senza mai dormire. Nelle ore successive Ongaro fu trasportato fino a El Calafate a circa 200 chilometri per essere essere curato. «È andata bene perché il crollo, che è stato piuttosto consistente, ha colpito Ongaro alle mani e non alla testa – spiegava Alberto Pirovano, -.È successo tutto mentre i tre erano entrati nel famoso camino, considerato il punto chiave di tutta la salita». L’incidente è avvenuto proprio prima del bivacco che doveva precedere il giorno della cima. “Abbiamo sfruttato le corde fisse che avevamo lasciato in parete – spiega Ongaro -. partivamo già da un buon punto, più o meno a due terzi di parete. Stavamo bene e sapevamo che il tempo sarebbe stato clemente per qualche giorno. Poi la sfortuna ha voluto che finissi vittima di quell’incidente, ma tutto sommato m’è andata bene”, raccontò Ongaro. “Avevamo superato la parte più difficile della parete, ero davanti, quando all’improvviso ho sentito un forte sibilo. Mi sono voltato e ho visto una cornice di ghiaccio crollarmi addosso. Si è staccata direttamente dalla cresta sommitale, credo per colpa del periodo piuttosto caldo. Ho cercato di schiacciarmi il più possibile alla parete, ma un grosso blocco, per fortuna non il più grosso, mi ha colpito le mani. In un primo momento non ho sentito nulla, poi le mani si sono gonfiate. Ci siamo immediatamente organizzati per calarci lungo i circa settecento metri di parete verticale che ci separavano dalla base. È stato difficile e penoso. Poi una volta arrivati abbiamo dovuto attraversare il ghiacciaio con le sue insidie”. Sembrava dovesse finire ancora una volta con una sconfitta. Quella parete sarebbe stata archiviata come invincibile. Di nuovi tentativi non se ne sarebbe più parlato per molti anni. Ma non andò così. Nonostante il rischio corso sul Piergiorgio, Brenna e Barmasse erano ancora convinti di poter chiudere la partita. Decisero di tornare in parete per salire finalmente oltre quel camino che già l’anno prima aveva bloccato la loro salita nonostante il rammarico per le sorti di Giovanni Ongaro che più di tutti aveva lavorato e dato il suo contributo perché i Ragni mettessero la loro firma su quella via. “Dopo alcuni giorni di riflessione abbiamo deciso di riprovare. Sappiamo che senza Giovanni sarà più difficile, ma crediamo di potercela ancora fare», scrissero Cristian e Hervé prima dell’ultimo tentativo.

In molti a Lecco attesero con il fiato sospeso il tentativo dei due scalatori soli sulla Ovest del Piergiorgio, tredici anni dopo i primi tentativi.

Tornati in alto Barmasse e Brenna riuscirono a passare l’ormai famoso camino, dove Ongaro fu investito dalla scarica di ghiaccio. Non si fecero scoraggiare nemmeno quando si accorsero di essere in netto ritardo e le ore di luce si stavano accorciando drammaticamente. Una salita tutta d’un fiato. L’ultimo tratto, quello che presentava il maggior rischio per i crolli di ghiaccio,venne percorso quando ormai l’oscurità si stava portando via le ultime luci del giorno. Cristian e Hervé giunsero in vetta alle undici di sera del 9 febbraio 2008 mentre Mariolino osservava dalla base della parete dopo aver accompagnato Giovanni Ongaro all’aeroporto. “Finalmente siamo riusciti a mettere la parola fine a questa avventura”, annunciarono i Ragni.

Brenna e Barmasse in cima

La maledizione che avvolgeva la parete Nordovest del Cerro Piergiorgio in Patagonia era stata sfatata. Erano tredici anni che l’alpinismo lecchese attendeva la notizia e finalmente il sogno si era avverato: il ragno Cristian Brenna e il valdostano Hervé Barmasse avevano portato a termine quella salita che per molti era diventata quasi un’ossessione dopo numerosi tentativi e tanta delusione. Fu una vittoria di gruppo condivisa anche da chi diede il suo contributo per la riuscita dell’impresa negli anni precedenti e soprattutto da chi, come Giovanni Ongaro, aveva dato molto su quell’inferno verticale prima di essere investito da una scarica di ghiaccio. Una vittoria per l’instancabile Mariolino Conti che per l’ennesima volta, testardo come sanno essere certi alpinisti lecchesi, era ai piedi della montagna per coordinare le operazioni. Una vittoria conquistata nel nome di Casimiro Ferrari, scomparso nel 2001.

La ruta de los hermanos