Nuova via Har Har Mahadev sulla parte nordovest del Cerro Kishtwar (6155m) nell’ottobre 2016, di Thomas Huber, Stephan Siegrist e Julian Zanker.

Testo e foto di Thomas Huber, da Stile Alpino #39

Sono le 3 del mattino. Il nostro cuoco Surij ci strappa dai nostri sogni col suo fare militaresco. Fa freddo e il cielo è stellato. Dopo una breve colazione, iniziamo il nostro secondo tentativo di scalare la parete nord-ovest del Cerro Kishtwar. L’umore del nostro piccolo team non è molto alto, perché sappiamo che non potremo tornare un’altra volta. Ora o mai più!
Ognuno di noi ha il suo personale rituale da svolgere prima che l’imminente sfida assorba tutta la nostra attenzione ed esperienza: Stephan fissa il cielo alla ricerca di stelle cadenti, come un buon presagio divino; Julian infila prima lo scarpone sinistro del destro; e io metto un ciottolo rosso su una roccia a forma di cuore, la mia “linea di confine” tra il campo base e il mondo di montagna. Prego – e spero – che rimarremo al riparo da tutti i pericoli. Lascio tutto dietro le mie spalle. Solo “l’adesso” è importante, e il “mai più” non trova più il suo spazio e iniziale significato. Davanti a me si para l’avventura, la parete, le fessure ghiacciate, un cliffhanger traballante o un Birdbeak alquanto discutibile. Qualunque cosa accadrà, darò il massimo per affrontare la sfida!
Un anno fa ho ricevuto un’e-mail dall’alpinista svizzero Stephan Siegrist, con l’immagine di una montagna incredibilmente bella, nel Kashmir. L’aveva già scalata prima di allora, ma c’era ancora una linea perfetta e su un tratto di parete che nessuno aveva scalato prima che aspettava solo la nostra visita! A quel tempo i miei pensieri erano ancora in Karakorum, sul Latok I, alto 7000 metri. Ho fallito due volte su quella montagna, ma credo ancora che la parete nord sia possibile. Andare al Latok per il terzo anno consecutivo, e forse fallire di nuovo, non sarebbe stato particolarmente edificante per la mia autostima da alpinista.
Questo muro di granito arancione, che raggiunge la quota di 6000 metri, e che diventa quasi incandescente nel sole della sera tanto da farlo assomigliare al Cerro Torre, si chiama Cerro Kishtwar. Mi ha portato verso una nuova direzione, senza tuttavia cancellare il Latok dalla mia memoria. Sapevo che avevo bisogno di un nuovo obiettivo per prepararmi meglio al mio progetto del cuore. Avevo bisogno di sentirmi di nuovo in piedi su una cima, per sapere che potevo ancora farlo; e che potevo ancora scalare montagne e non guardarle solo dal basso, costruendo i miei fantasiosi castelli in aria.
Il Kashmir è la provincia più settentrionale dell’India. Rispetto ad altre regioni, è ancora poco frequentato a scopi turistici e alpinistici. Grandi alpinisti inglesi come Steven Venables, Mick Fowler e Andy Perkins hanno scoperto quest’area montuosa nei primi anni ’90, compiendo alcune spettacolari prime ascensioni. Il Cerro Kishtwar è stato il primo a destare l’interesse degli alpinisti. Sembra perfetto e si mostra con tutte le caratteristiche congenite di una vera sfida. Sembra che non ci sia niente di meglio. Semplicemente un Cerro! Non Torre, ma Kishtwar. Cerro Kishtwar.
Nel 1992 Andy Perkins e Brendan Murphy trascorsero 17 giorni sulla sua parete nord-est. Salirono lungo fessure ghiacciate e diedri. Furono costretti a lottare con il cattivo tempo e la neve. E alla fine fallirono a soli 100 metri dalla cima. Le loro scorte di cibo si stavano esaurendo ed erano arrivati letteralmente alla fine. L’anno seguente Mick Fowler e Steve Sustad furono i primi a raggiungere la cima di questa montagna di 6000 metri. Ma il Kashmir non ha solo il Cerro da offrire. Ci sono innumerevoli e slanciate torri di roccia e montagne nella regione che aspettano solo di essere salite.
I confini con il Kashmir furono chiusi a metà degli anni ‘90 a causa di questioni di natura politica e militare. Agli stranieri non era permesso viaggiare nella regione. L’alpinismo nel resto dell’Himalaya e del Karakorum ha vissuto un boom durante tutto il periodo in cui le montagne del Kashmir sono invece rimaste in un sonno profondo. Ci sono voluti molti anni – fino al 2010 – affinché i regolamenti si allentassero un po’. E nel 2011 Stephan Siegrist, Denis Burdet e David Lama toccarono finalmente con mano le montagne del Kashmir. Il loro obiettivo era Cerro Kishtwar. Riuscirono a raggiungere la vetta in stile alpino attraverso un’audace linea di ghiaccio nella parte destra dello sperone nord-ovest.
Stephan ha visitato le montagne del Kashmir quattro volte negli anni seguenti, compiendo sette prime ascensioni e individuando una nuova e spettacolare linea di salita per la cima del Kishtwar Shivling. Nel frattempo, il Cerro Kishtwar è stato scalato un’altra volta, lungo la sua parete est, da Manu Pellisier, Marko Pretzelj, Urban Novak e Hayden Kennedy. I quattro alpinisti sono stati premiati con il Piolet d’Or. Anche se ci sono molte montagne nella regione in attesa di una prima salita, Stephan non poteva dimenticare il Cerro. La bellezza di quella parete e il suo granito perfetto! È semplicemente una parete come raramente puoi trovare. Non solo qui, ma in qualsiasi parte del mondo!
Non potevo rifiutare un simile invito! Ho scritto una e-mail rispondendo con le parole: “Ci sono! Chi altro viene con noi? Quando partiamo?” Conosco bene Stephan. Siamo stati insieme in Antartide, al Cerro Torre e sulla parete nord dell’Eiger in inverno. So che quando siamo insieme in montagna, ci divertiamo molto. Credo fermamente che l’umorismo non sia solo un piacevole effetto collaterale dell’alpinismo, ma un fattore che promuove il successo durante un’ascensione estrema. Il nostro terzo uomo sarebbe stato un giovane scalatore svizzero, Julian Zanker. L’avevo incontrato solo brevemente prima della partenza.
Il 7 settembre Stephan e io atterriamo a Nuova Delhi. Julian, che era nel bel mezzo della sua stagione lavorativa come guida alpina, si unirà a noi tra dieci giorni. Tutti gli ostacoli burocratici vengono sbrigati velocemente. Due giorni dopo attraversiamo la valle verso Machall, un villaggio che ospita un importante tempio indù. Anche se il percorso del pellegrinaggio è segnato da molta spazzatura, la campagna circostante èunica. I villaggi sono primitivi e le persone amichevoli. Sentiamo «Namastè! Jule! Quale paese?» da tutti i lati. I turisti difficilmente vengono in questa valle. Abbiamo raggiunto il tempio di Machall dopo due giorni di cammino. Questo promette miracoli ed è dedicato alla Sacra Famiglia che circonda il Dio Shiva. In agosto circa 80.000 pellegrini visitano il tempio. La maggior parte arrivano al villaggio a piedi. Quelli che possono permetterselo prendono un elicottero. Ma oggi il luogo è quasi deserto. Bandiere colorate luccicano nel vento, una statua di Shiva ci osserva tranquilla mentre continuiamo il nostro viaggio. La spazzatura diminuisce dopo Machall, e il paesaggio torna a essere incontaminato.
Una bandiera tibetana segna il confine tra induismo e buddismo. Camminiamo fino a Sumchan, l’ultimo villaggio. Qui siamo in grado di sperimentare l’ospitalità buddista. Poi assistiamo a un altro cambiamento culturale. Gli allevatori che popolano le alte valli con centinaia di pecore sono infatti fedeli all’Islam. Per me questa valle è la prova che si può vivere tutti insieme con diverse religioni!
Il nostro campo base è situato a 4000 metri di altitudine, in una morena sul confine tra gli Stati. Un bel pascolo promette un lungo periodo di tranquillità. Conosco Surij, il nostro cuoco, da una precedente spedizione.
Il tempo è buono e possiamo vedere una parte del Cerro Kishtwar. Non avrebbe potuto essere meglio di così. Il giorno dopo scendiamo la morena e andiamo verso la montagna. Continuo a fermarmi per ammirare il paesaggio selvaggio.
Una valanga cade lungo il versante opposto della valle, e al contempo intuisco di stare in piedi su una roccia a forma di cuore, grande e perfetta. La sua estremità appuntita è rivolta direttamente verso il Cerro Kishtwar. Prendo un sassolino rosso e ovale che ho trovato casualmente accanto ad esso e lo posiziono nel mezzo del masso. Questo rituale si sarebbe rivelato iconico e importante nelle settimane a venire. È il mio cuore pietra. Il mio “portale” verso la natura incontaminata. Passiamo i nostri giorni di acclimatamento trasportando gli zaini pesanti al campo base avanzato. Trasportiamo 150 chili di attrezzatura, corde, cibo, gas e tende fino a 5000 metri.
Quando mi trovo di fronte alla parete per la prima volta, sono completamente sopraffatto! Vorrei iniziare a scalare immediatamente se avessi con me un’imbracatura. I primi 400 metri sono caratterizzati da un ripido pendio di ghiaccio con alcune sezioni di misto. Poi, una parete di granito apparentemente strapiombante si erge ininterrotta per sei o settecento metri. Una follia! Individuiamo i diedri ghiacciati che gli inglesi hanno salito anni fa, un po’ a sinistra della linea che pensiamo di salire noi. Più a sinistra riconosciamo la via di ghiaccio di Mick Fowler e Steve Sustad che ha significato la prima salita della montagna. A destra individuiamo l’audace linea di ghiaccio dell’ascensione di Stephan di qualche tempo prima. E noi, pensiamo di salire proprio nel centro della parete. Nessun seracco minaccia la salita che abbiamo a lungo sognato! Sembra molto difficile, ma i pericoli possono essere calcolati. Non potrebbe essere meglio di così!
Alla fine Julian (fotografo e cameraman di Amburgo) si unisce a noi nel nostro campo base. Gli raccontiamo dei nostri ultimi sviluppi, su ciò che abbiamo realizzato fino ad ora e su quello che siamo riusciti a osservare. «Julian, devi solo stendere il sacco a pelo e metterti l’imbracatura. Il resto è tutto pronto, il tempo è buono e sembra che rimarrà così per un po’.» Julian viene immediatamente contagiato dalla nostra euforia.
Iniziamo la scalata subito dopo una breve fase di acclimatamento. Per qualche tratto usiamo delle corde fisse nella parte inferiore della parete, come protezione aggiuntiva. Poi trasciniamo i nostri sacconi fino alla base della parete rocciosa vera e propria. Il tempo che stimiamo di impiegare per la nostra scalata è fondamentale per calcolare le provviste. Abbiamo anche bisogno del portaledge, sacchi a pelo, materassini, fornelletti e tutta la nostra attrezzatura da arrampicata. Programmiamo di raggiungere la vetta dopo cinque giorni di arrampicata. Se le cose vanno bene, anche un giorno in meno! Così, portiamo con noi sei cartucce di gas, una al giorno, per essere più sicuri.
Cibo e barrette di muesli per cinque giorni, due lattine di sali minerali, cereali e caffè macinato per fare colazione cinque volte, due pacchetti di orsetti di gomma e, soprattutto, un bel pezzo di pancetta affumicata comprato dal mio macellaio a Berchtesgaden. Agganciamo saldamente i sacchi di materiale alla parete e torniamo nuovamente al campo base.
Ognuno di ottimizzato al meglio le proprie attrezzature personali. Abbiamo mangiato e dormito molto e ci siamo preparati per la scalata, ognuno a modo suo. Sono quindi sicuro che andrà tutto bene. Il nostro gruppo ha lavorato insieme in armonia, siamo tutti ben preparati, in buona forma e motivati. I sistemi di fessure sulla parete sono evidenti e la sfida sembra alla nostra portata. Inoltre, in passato ho già acquisito molta esperienza in Yosemite. Sono riuscito a scalare Zodiac a El Capitan in un’ora e 52 minuti, una grande parete di 600 metri – proprio come il Cerro Kishtwar. Ho scalato il Nose con i suoi 1000 metri di dislivello in 2 ore e 45 minuti. Quindi, immagino che in cinque giorni dovremmo riuscire a scalare questa parete!
È l’ultimo giorno di settembre. Il vento soffiava da nord, portandosi via tutta l’umidità che stava causando un po’ di pioggia pomeridiana. Ora ci sono limpidi cieli blu, senza nuvole, ma fa un po’ più freddo! 1 ottobre: salutiamo Surij, il suo assistente cuoco Sachim e il nostro campo base. Metto il sassolino nel mezzo della roccia a forma di cuore. Ora sono libero e pronto per l’avventura. Stefan, il nostro cameraman, viene con noi al campo avanzato. Vuole provare a scattare alcune immagini dei nostri momenti sulla parete con un buon teleobiettivo, al fine di trasmettere il senso di un piccolo uomo nel bel mezzo di un’enorme muraglia.
2 ottobre: raggiungiamo la base della parete. Ora siamo davvero pronti a partire. Una fessura sottile come un pelo si sviluppa fino a una cengia a circa 150 metri dalla base. Questo è il nostro obiettivo per la giornata. Ma chi inizia? Julian che il più giovane, Stephan che ha avuto l’idea, o io che sono il più vecchio? Prima che possa fare la domanda, Julian appende i friend, i nut, i cliff e i Birdbeaks alla sua imbracatura. Il giovane avventuriero vuole davvero mettere alla prova i suoi limiti. La parete è ombrosa e fredda, sicuramente sotto i -10°C. Il sole non vuole farsi vedere, almeno non fino alle 15:00, per darci un po’ di calore per circa tre ore soltanto. Quindi le scarpette e la magnesite rimangono nello zaino. Julian è pronto per la prima parte della via. Stephan nel frattempo intaglia un piccolo terrazzino nel ghiaccio su cui allestire il nostro campo. Un nido per tre persone, che quassù è un lusso.

Metto la corda nel gri-gri e Julian piazza il suo primo Birdbeak due metri sopra la sosta. E non sarà l’ultimo che useremo…
Questo piccolo e miracoloso oggetto in acciaio, una sorta di uncino o, meglio ancora, un mix tra un Cliffhanger e un Knifeblade, rende possibile salire sezioni quasi totalmente compatte senza dover praticare un buco nella parete. Sostituisce quasi anche il Copperhead ed è ormai lo strumento basilare della moderna arrampicata artificiale. Eppure, Julian impiega il suo tempo per salire, e io lo assicuro pazientemente. Dopo tre ore di sforzi, possiamo dire che l’inizio è stato fatto! Però che freddo! Il sole spunterà tra due ore e spero che le cose prendano un andamento più veloce. Julian allestisce una sosta e io mi faccio sostituire da Stephan a fare sicurezza a Julian. Sistemo le cose negli zaini e, mentre Stephan comincia a salire sulle corde fissate da Lulian, il sole spunta da dietro l’angolo. Non ho più speranze di raggiungere il nostro obiettivo della giornata, cioè la cengia nevosa 150 metri sopra di noi. Così, mi metto comodo nel portaledge, sciolgo un po’ di neve e mi godo il sole della sera. Continuo a sentire parolacce, provenienti da 30 metri sopra di me, in svizzero-tedesco. Sento che le fessure sono tutte congelate, che è “un mucchio di merda” e che non sta andando avanti di molto. Mi metto a ridere. Non posso fare niente, quindi mi limito semplicemente a divertirmi. Stephan arriva 20 metri sotto la linea del sole. Il tiro che Julian ha salito durante la giornata è di 50 metri circa, 50 di 600. E, realisticamente parlando, è troppo poco! Se continuassimo con questo ritmo non saremo in grado di raggiungere la cima in cinque giorni! Ci rintaniamo sconfitti nel nostro “Snowledge”. Mangiamo, beviamo e strisciamo nel nostro portaledge. Julian e io condividiamo la parte superiore, Stephan invece sta sotto di noi nella sua amaca. Ci vuole un bel po’ di tempo prima che ognuno entri nel proprio sacco a pelo. Ma una volta che sei dentro è perfetto, immerso in un mondo caldo e accogliente. Niente al di fuori di qui ora mi interessa molto. Non importa se il portaledge sia nel mio cortile di casa o a 5400 metri su una gelida parete nord-ovest. L’unica cosa che conta è che è accogliente, calda e piacevole.
3 ottobre: oggi è la mia giornata! Sono pienamente motivato ed è necessario andare avanti! Dopo una colazione veloce composta da pochi cucchiai di cereali e una tazza di caffè che contiene i resti degli spaghetti della sera prima, risalgo la corda fissa fin dove Stephan e Julian sono arrivati. Mi trovo ora sopra la sosta di Julian e metto il primo Birdbeak. Una fessura molto sottile si fa strada lungo un muro infinito. Non mi lascio intimidire da un punto di assicurazione all’altro. Alcune protezioni sono buone, altre a malapena reggono il peso del mio corpo. A volte un friend si incastra in una lama vuota, facendomi trattenere il respiro. A volte un Birdbeak affonda cantando nella fessura e calmando i miei nervi. Mi faccio strada avanzando lentamente fino a una cengia rocciosa. Attrezzo una sosta. Julian intanto pulisce il campo sottostante. La parete è verticale, certamente non facile. Un po’ come nello stile dell’ormai classica via Shield su El Capitan; e per di più scalabile solo grazie ai Birdbeaks! Senza di loro mi sarei trovato di fronte a un enorme punto interrogativo. Poco dopo mezzogiorno infatti raggiungo finalmente la nostra sospirata cengia. La chiamiamo “Happyledge”. Julian, che dalla sosta mi ha tenuto per quattro ore, è congelato fino al midollo e non riesce a sentire le dita dei piedi. Stephan fa la sua parte. Io nel frattempo attraverso la cengia innevata verso destra, dove finalmente trovo le tanto attese e perfette fessure. È il tipico terreno da A2, così penso di prendere i miei friend e di affrontarle subito. Peccato che le scarpette d’arrampicata siano nel saccone, 150 metri più in basso, sulla “Snowledge”! Pertanto, salgo questa fessura perfetta solo nella mia immaginazione. Il paese delle meraviglie!
Preparo tutto per il giorno successivo e mi dirigo al bivacco al calar del sole. Sono ancora euforico per la grande giornata trascorsa. Il modesto inizio del giorno prima è già dimenticato, e il tempo sembra essere perfetto. Siamo fiduciosi.

4 ottobre: trasferiamo il nostro campo sulla “Happyledge”.
Oggi sono io responsabile della pulizia del campo e del trasporto dei carichi. Julian e Stephan vorrebbero salire fino a raggiungere la prossima cengia nevosa. Le fredde temperature ritardano la partenza di Julian. Le sue dita intorpidite non migliorano. Stephan invece deve combattere con una mano gonfia, probabilmente una tendinite. Non proprio le condizioni ideali per il nostro ardito obiettivo. Ma Stephan stringe i denti e Julian è molto motivato. Julian usa il suo primo skyhook della giornata alle 10 del mattino. Dopo aver finito il mio lavoro mi concedo una pausa sulla “Happyledge”. Mi godo così tanto il sole che mi raggiunge nuovamente nel pomeriggio che non posso immaginare niente di meglio che essere qui.
Nei miei pensieri condivido il momento con i miei familiari a casa, sperando sempre di essere in grado di superare tutto il resto della parete e di essere in cima entro tre giorni. Poi sarò di nuovo con loro, a condividere le mie avventure. La serata è così bella con la sua solitudine, l’isolamento e l’esposizione. Il sole tramonta indorando le montagne circostanti in una luce pacifica e calda. Uno sfondo che rende un pochino deludente l’arrivo degli altri due. Lame troppo larghe, estremamente difficili. Salgono solo 35 metri in sei ore. Non c’è più niente da fare oggi, e il resto della salita non sembra offrire di più. Un mondo di granito verticale e senza fine…
La nostra strategia non si adatta per niente a questo tipo di progressione. È il nostro terzo giorno, e abbiamo pianificato di raggiungere la cima in cinque. Non abbiamo nemmeno superato un terzo della parete. È evidente che non siamo in grado di raggiungere l’obiettivo in soli due giorni. Iniziamo quindi a ridurre le nostre razioni di cibo e ci rintaniamo nel nostro portaledge, senza parlare. Penso che ognuno di noi stia combattendo i propri timori. E questo ci impedisce di dormire bene. Stephan ha la mano ferita e non sembra che sia per niente sulla via della guarigione. Julian ha ancora le dita intorpidite dal freddo estremo. Io ho una folle paura di fallire.
All’inizio la parete aveva un’aura benevola. Oggi sembra solo infinita. Realisticamente parlando, in queste circostanze sembra impossibile continuare.
Anche se il tempo è stato perfetto nei giorni scorsi, inizio a pensare che dovremmo rinunciare. Del resto, le nostre scorte di cibo si esaurirebbero proprio come era accaduto agli inglesi. Julian si sarebbe beccato un notevole congelamento e la mano di Stephan sarebbe stata causa di problemi enormi.
Avremmo presto raggiunto il limite estremo delle nostre forze… Attraverso tutti questi possibili scenari nei miei sogni a occhi aperti. Perciò, tornare indietro o salire? Mobilitare tutto ciò che abbiamo, ridurre al minimo le razioni di cibo e dare il massimo, e magari arrivare in cima? O meglio tornare indietro domani, sistemare tutte le corde fisse per poi poter risalire veloci e in un solo giorno fino a questo punto? Così facendo, Julian potrebbe concedere una tregua ai suoi piedi intorpiditi, Stephan potrebbe far riposare la sua mano e noi, come cordata, potremmo prepararci mentalmente a superare i tratti difficili che ancora ci aspettano. Che fare quindi?
Qualcosa mi dice che solo una decisione ci avrebbe portato al successo. Devo alzarmi e rischiare di raggiungere il mio limite? So che se ci arrendessimo da qualche parte più in alto, vicino alla cima, non avremo più una seconda possibilità, e dovrei tornare a casa ancora a mani vuote. Invece, se decidiamo di chiudere qua questo primo tentativo, potremmo provare ancora una seconda volta, dopo un po’ di riposo. Ma il tempo sarà ancora buono?
La piccola pietra nella tasca della mia giacca cattura la mia attenzione. Un sassolino che mia figlia mi ha dato prima di partire. «Hai bisogno di questo, portalo sempre con te e riportami un sassolino dalla cima.» Su quel sasso c’è scritta la parola “Courage”. Ora so cosa fare! Tornare indietro non significa scappare, ma dimostrare coraggio. Avere fiducia nel poter tornare una settimana dopo con forza rinnovata e ricominciare da capo.
8 ottobre: torniamo sulla parete con nuova energia, ben riposati e mentalmente preparati. Siamo di nuovo all’inizio della nostra avventura, con abbastanza “benzina” e rifornimenti. Il tempo sembra essere ancora perfetto. Ma ora il vento soffia da nord a sud, portando aria umida nel Kashmir. Dopo un cielo limpido al mattino, le nuvole si accumulano nel pomeriggio e portano a delle nevicate. Non vedremo il sole per i prossimi giorni, ma subiremo sicuramente un sacco di spindrift e fessure ghiacciate. Siamo tutti consapevoli che non troveremo condizioni ottimali, ma nessuno pensa minimamente di tornare indietro. Ora o mai più! Il “no” semplicemente non esiste… Accettiamo tutto ciò che la montagna ha in serbo per noi. Siamo pronti a raggiungere i nostri limiti. Non importa se abbiamo i piedi freddi, se siamo coperti di polvere, o se tutto nel portaledge è umido, freddo e ghiacciato. Per noi conta solo “l’adesso”. Stiamo salendo!
Nei cinque giorni seguenti arrampichiamo in condizioni avverse e senza alcun comfort, mangiamo dallo stesso cucchiaio, usiamo la tazza del caffè come ciotola per il minestrone.
Raggiungiamo una piccola cengia a circa 6100 metri di quota. Il muro sopra di noi si abbatte e capiamo di essere giunti a un’impercettibile conclusione della nostra avventura.

14 ottobre: di prima mattina saliamo sulle corde fisse fino al punto più alto raggiunto la sera precedente. Il cielo del mattino è chiaro. Il sole nascente, con i suoi primi raggi solletica le montagne circostanti e di nuovo mi sento sopraffatto dalla bellezza e dalla natura di queste montagne. Gli ultimi 100 metri verso la cima sono un “regalo”. La scalata facile e mista ci porta a un intaglio e da lì mancano solo pochi metri alla cima.
Sentiamo di non essere soli! Sentiamo di essere stati premiati per tutto ciò che abbiamo vissuto. Saliamo i restanti metri e non ci riusciamo a crederci. Le sbiadite nuvole volano nel cielo blu, 500 metri sopra di noi, e nel frattempo siamo lì al sole, nella più completa tranquillità. Sapevamo di essere in grado di farlo perché siamo un gruppo affiatato e coraggioso. Chiamiamo la nostra via alla parete nord-ovest del Cerro Kishtwar “Har-Har Mahadev”. Questo detto è tratto dalla mitologia indù e dedicato al dio Shiva: “Accresci i tuoi valori morali in modo da poter superare la paura e dominare pericolose situazioni!”. O come diciamo più semplicemente in Baviera: “Stringi i denti!”.
15 ottobre: recupero il sassolino rosso dal centro del cuore di pietra e guardo la montagna. Mi metto a ridere, perché questo Cerro sembra essere cresciuto di dimensioni nelle ultime sette settimane.
Siamo stati quasi sconfitti perché all’inizio lo abbiamo sottovalutato. Solo quando abbiamo iniziato a vedere la montagna nella sua vera dimensione, abbiamo potuto salirla. È un’altra prova che l’impossibile esiste solo nella tua testa. Quando ti fidi della tua esperienza, mostra coraggio e lasciati guidare dal tuo intuito e dal tuo cuore perché l’impossibile perde il suo significato.
Trascorrerò i prossimi giorni tornando alla civiltà un po’ alla volta, finché non avrò raggiunto il luogo in cui è iniziato il nostro viaggio. Poi mi siederò al nostro tavolo, una tazza di caffè e un caldo pretzel bavarese davanti a me. I miei tre figli e mia moglie saranno lì e racconterò loro una storia vissuta tra le selvagge montagne del Kashmir.